In tribunale
domenica 17 Marzo, 2024
di Benedetta Centin
Quale dirigente medico di Pediatria del Santa Chiara di Trento, a giugno 2017, perché «occupata e stanca», avrebbe negato un consulto a una collega che si stava occupando di un bambino di quattro anni che si era sentito male dopo aver mangiato del formaggio prodotto con latte crudo, e che si scoprirà poi essere stato contaminato dal batterio dell’escherichia coli. Ora, per quella presunta omissione che avrebbe provocato un ritardo nella diagnosi e quindi anche nella cura della sindrome di Seu per il piccolo paziente, la dottoressa di circa 50 anni dovrà risponderne a processo. Nei giorni scorsi infatti, il giudice per l’udienza preliminare Enrico Borrelli l’ha rinviata a giudizio. Così come sollecitato anche dal papà del ragazzino che è parte offesa e che, assistito dall’avvocato Paolo Chiariello, aveva presentato opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura. In aula poi il genitore potrebbe costituirsi parte civile.
Il processo, al tribunale monocratico, si aprirà di qui a qualche settimana e nel corso del dibattimento il camice bianco, assistito dall’avvocato Roberto Bertuol, avrà modo di difendersi dalle accuse formalizzate dalla Procura, quelle di rifiuto di atti d’ufficio e di lesioni colpose gravissime in ambito medico. Contestazioni, queste, che la dottoressa ha sempre respinto con forza.
L’inchiesta, gli indagati
Ma per spiegare la vicenda è necessario fare un passo indietro. Erano cinque le persone che la Procura di Trento aveva iscritto nel registro degli indagati nel 2017, dopo che il bimbo, allora di quattro anni, consumato il formaggio «Due Laghi» crudo acquistato al caseificio sociale di Coredo, era finito in gravi condizioni, in stato vegetativo come è tutt’ora. Il procedimento era stato aperto non solo per l’allora legale rappresentate del caseificio Lorenzo Biasi e per il casaro Gianluca Fornasari, in qualità di responsabile del piano di controllo — i cui procedimenti sono già stati definiti — ma anche nei confronti di tre medici, tre dottoresse. Una, all’epoca dei fatti, in servizio all’ospedale di Cles e le restanti due al Santa Chiara. Camici bianchi per i quali la pm Maria Colpani aveva chiesto l’archiviazione. La famiglia del piccolo, per il tramite del difensore Chiariello, aveva presentato opposizione per una sola posizione. Per la dottoressa che, secondo la denuncia presentata nel 2017 dal padre del bambino, nelle prime, concitate ore del 5 giugno di quell’anno in cui si erano manifestati nel minore i sintomi della Seu (la sindrome emolitico uremica che sembra sia causata da alcuni alimenti tra cui il latte crudo), si sarebbe rifiutata di visitare il piccolo arrivato in ambulanza dall’ospedale di Cles, nonostante la richiesta della collega di reparto.
La diagnosi tardiva
«Aveva risposto alla collega che aveva da fare ed era stanca» aveva riportato il genitore in denuncia, sottolineando che c’era invece la necessità di intervenire con urgenza. Ci sarebbe stato quindi un ritardo nella diagnosi (che c’era stata invece solo tre giorni dopo) e pure nella somministrazione della terapia: secondo il consulente della famiglia il presunto rifiuto dell’imputata aveva appunto comportato l’impossibilità di porre in essere a stretto giro pratiche cliniche che avrebbero diminuito le conseguenze della malattia per il bimbo. Di fatto ci sarebbe stato un aggravamento della malattia che ha comportato danni permanenti.
Era stato il giudice Marco Tamburrino ad ordinare alla pm Colpani — che invece aveva chiesto di archiviare — l’imputazione coatta della dottoressa per la presunta omissione e per le lesioni. E nei giorni scorsi è stato il gup Borrelli a rinviare a giudizio il camice bianco. A breve il via al processo.
L'intervista
di Benedetta Centin
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