l'intervista
sabato 23 Novembre, 2024
di Ilaria Bionda
Cathy La Torre, conosciuta anche come «Avvocathy» in virtù del suo profilo Instagram da quasi un milione di follower, è un’avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio, in particolare in merito a orientamento sessuale, identità di genere, tutela dei diritti della comunità Lgbtqia+ e violenza di genere. Tematiche che sono al centro anche della sua divulgazione, con la quale veicola non solo messaggi importanti per una società più equa, ma anche pillole giuridiche come reali strumenti per la lotta a fenomeni sistemici. La Torre sarà al Mart oggi alle 18.30, per presentare il suo ultimo libro «Non è normale. Se è violenza non è amore. È reato», inserendosi nel calendario di eventi e spettacoli che il Comune di Rovereto organizza in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre. L’autrice dialogherà con Stefania Santoni ed Emanuela Skulina dell’Associazione Alba Chiara. La serata sarà introdotta da Micol Cossali, assessora alla promozione artistica e culturale e al turismo e da Silvia Valduga, assessora alle politiche educative e al contrasto alle diseguaglianze.
Cathy La Torre, perché questo titolo per il suo libro?
«Il titolo è volutamente provocatorio e indica il fatto che alcune forme di violenza sono state talmente tanto romanticizzate da rendere spesso complessa la distinzione tra cosa è normale e cosa non lo è. Spesso pongo una domanda: come fa qualcosa di illecito a essere amore? È chiaro che non sempre la legge ci dà il confine tra cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma in tema di violenza sì, senza ombra di dubbio. La violenza è uno di quegli ambiti in cui la legge è uno spartiacque: quello che per il Codice penale è un reato, non può essere amore».
E da dove deriva questa diffusa visione di normalità?
«Credo che questa confusione per la generazione di quaranta-sessantenni sia stata generata da una cultura e da un insieme di leggi derivate da un sistema patriarcale. Se io ripenso alla mia infanzia ho ricordi di programmi televisivi in cui la donna era assunta quasi a orpello, in cui venivano sdoganati anche comportamenti che non erano esattamente normali e vorrei a questo proposito ricordare che fino al 1975 il diritto di un uomo di picchiare una donna era previsto dalla legge. Le generazioni più giovani questa normalità l’hanno poi acquisita come lascito, da quello che ascoltano in casa, ma anche da una cultura digitale che talvolta tende a premiare dei contenuti che portano in questa direzione».
Rimane anche oggi il pregiudizio che porta a considerare come violenza solo quella che si vede tralasciando così tutte le forme più subdole, come la psicologica?
«Le donne più giovani sono assolutamente consapevoli, anzi sono anche molto preparate sul tema e sanno riconoscerla. Quello su cui sono meno preparate è l’idea che la violenza psicologica si possa provare e portare in tribunale, pensano che siccome non si veda non sia possibile. Al contrario si può e può anche portare a conseguenze e provvedimenti giuridici. Tra l’altro le forme di violenza psicologica sono quelle che lasciano i segni maggiori, non nel corpo ma sulla psiche, perché sono le più pervasive: distruggono completamente l’autostima, portano a credere di non valere nulla e di non potersi mai emancipare proprio da questo tipo di violenza, causando un circolo vizioso».
Definisce il suo libro come «prontuario», a chi è rivolto?
«Lo considero uno strumento, un ausilio, e per questo ne consiglio la lettura a tutte e tutti. È un libro che non solo ti spiega le forme di violenza di cui potresti essere vittima o addirittura mettere in pratica, ma ti dà anche degli strumenti concreti per tutelarti. Quindi è importante per chiunque in qualche modo voglia sapere di più del fenomeno della violenza, che oggi ha talmente tante forme al punto che ogni anno se ne creano di nuove, soprattutto con la diffusione del digitale».
Lei è anche una divulgatrice sui social, quando ha scelto di dedicare parte del suo tempo e della sua professione come avvocata a questo tipo di attività?
«L’ho sempre fatto, da quando ero giovanissima. La differenza è che prima non c’erano i social e quindi divulgavo alle assemblee e nelle aule di tribunale, attraverso delle cause pilota che poi avevano una visibilità nei media tradizionali, così come in televisione quando mi era data l’occasione. Oggi i social rappresentano una possibilità di arrivare a più persone senza l’intermediazione, se hai delle cose da dire e qualcuno le vuole ascoltare ti segue. È stata quindi una normale evoluzione di quello che già facevo dal 1999, quando ho iniziato come attivista prima con la mia comunità Lgbtqia+, poi per i diritti umani e fondamentali. Ognuno di noi è tante cose e nel principio di questa intersezionalità, di questa complessità delle nostre vite, la mia evoluzione è stata essere accanto a tutte le persone che soffrivano un’ingiustizia, anche quelle che non facevano parte del mio vissuto. Sono quindi diventata attivista di molte altre questioni proprio perché se una persona è ferita nella sua dignità o è discriminata, tutte le persone lo sono».
Cosa pensa dell’importanza di realtà come l’Associazione Alba Chiara e la neonata Fondazione Giulia Cecchettin nel contrasto al fenomeno endemico che è la violenza di genere?
«Credo che la stragrande maggioranza del lavoro contro la violenza di genere in Italia oggi lo facciano i Cav, ossia i centri antiviolenza che, vorrei ricordare a chi ci legge, sono veramente sotto finanziati dallo Stato, vivono di donazioni e molto spesso di volontariato. Le realtà come Alba Chiara e Fondazione Giulia Cecchettin sono preziosissime e fanno la loro parte in questa grande lotta contro la violenza con eventi straordinari come quello a cui ho partecipato pochi giorni fa a Riva del Garda con il coinvolgimento di circa 600 studentesse e studenti. La domanda che però bisogna farsi è: “Lo Stato cosa fa?”. Il Trentino è molto sensibile al tema, aiuta e sostiene queste associazioni, ma non si può dire lo stesso di tutte le altre realtà istituzionali, né tanto meno dello Stato, che deve fare di più. Senza risorse, senza Cav che funzionino, senza case rifugio, senza un reddito di sussistenza per una donna con figli a carico che non lavora e vuole uscire dalla violenza, non si va da nessuna parte».
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