L'intervista
lunedì 16 Settembre, 2024
di Giacomo Polli
Una carriera vissuta principalmente a tinte bianconere, con l’inno di Mameli sempre in sottofondo. In bacheca un mondiale, sei scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa e una Coppa delle coppe. Basterebbe questo per descrivere ciò che Claudio Gentile è stato. Eppure il percorso di uno dei terzini più forti di sempre non si limita ai tanti trofei conquistati, perché dietro ad ogni traguardo conquistato o mancato c’è una storia, un racconto. Dalla Coppa dei campioni stregata alla Coppa del mondo alzata nel cielo di Madrid. Un intreccio di emozioni che hanno scandito il percorso di un bambino che ha vissuto i primi anni di vita a Tripoli, in Libia, e che è diventato grande in Italia. Una persona semplice, diretta, che non ha mai accettato compromessi, portando avanti le proprie idee a prescindere da tutto.
Gentile, lei ha vissuto parte della sua infanzia in Libia. Come ricorda quegli anni?
«Andammo via dalla Libia quando avevo 8 anni. La mattina andavo a scuola e il pomeriggio giocavo a calcio nel campo dell’oratorio con molti altri bambini. Capitava che nel giocare ci scontrassimo con i ragazzi libici e prendevamo davvero tante botte (ride; ndr). Noi, come popolo italiano, siamo stati cacciati dalla Libia da Gheddafi, sappiamo tutti quello che ha fatto. Abbiamo lasciato lì i nostri averi portando via solo la valigia. Lui aveva una 124 e portava la macchina a fare il tagliando da mio zio, che lavorava nella concessionaria Fiat a Tripoli. In Italia ho poi vissuto nella provincia di Como».
E quando è iniziata la sua carriera?
«Giocavo a pallone negli oratori, poi un osservatore mi notò e venni chiamato per fare un provino al Como. Fui preso ma abitavo a Brunate, dove c’è una funicolare, e chiesi alla società se mi potessero pagare l’abbonamento per andare agli allenamenti perché la mia famiglia non poteva permetterselo. Dissero che non era possibile e quindi andai a giocare in una squadra di provincia, dove rimasi per un anno. In seguito passai al Varese, club con il quale ebbi anche l’opportunità di esordire in prima squadra. Feci un campionato di Serie B ottimo e venni definito come uno dei migliori giovani del calcio italiano. A 19 anni, poi, andai alla Juventus e da lì iniziò un po’ tutto…».
La Juve di Gianni Agnelli. Come ricorda l’Avvocato?
«Un giorno, durante la preparazione al campionato, venne a trovarci a Villar Perosa in elicottero. Fino a quel momento lo avevo visto solo sui giornali, quindi ero un po’ impressionato. Mi nascosi dietro a Morini e Zoff, che erano abbastanza alti per non farmi vedere. Ad un certo punto l’avvocato disse: “Ma dov’è quel libico che abbiamo comprato?”. Non capivo come uno come lui chiedesse di me, non avevo nemmeno vent’anni. Ero davvero emozionato».
Tra i personaggi simbolo di quella Juve anche Boniperti, che era il presidente. È vero che prima della finale di Coppa dei Campioni del 1983 chiamò un mago?
«Sì, ci convocò dicendo che saremmo dovuti andare a parlare con un mago in vista della finale. Personalmente trovai la situazione abbastanza strana perché non credo in queste cose. Fatto sta che il mago ci disse: “Se non prendete goal entro i primi 10 minuti vincete la competizione”. Poi successe che contro l’Amburgo prendemmo goal al nono minuto. Ricordo che in campo ci guardavamo quasi perplessi, poi è andata come sappiamo. È stata una sconfitta davvero difficile da digerire. Forse l’intento del presidente era quello di stimolarci. Lui era molto competente, è stato un grande anche se ci faceva un po’ tribolare per gli ingaggi (ride; ndr)».
Come ricorda quella finale stregata?
«Ricordo il grande entusiasmo dei tifosi che sognavano di vincere la prima Coppa dei campioni della storia bianconera. L’Amburgo comunque era una squadra di rispetto, non arrivò in finale per caso. Noi, però, eravamo molto più forti; avevamo giocatori di altissimo livello ed eravamo considerati da tutti come i favoriti per quella finale. Io in carriera ho vinto quasi tutto, quella coppa manca ed è un vero peccato»
Com’era il gruppo squadra?
«Era un ottimo gruppo. Io Scirea, Tardelli e Cabrini eravamo molto amici e uscivamo quasi sempre insieme. Ci aiutavamo molto anche in campo. È stato un gruppo incredibile, che ci ha portato a diventare calciatori di alto livello. Avevamo quasi tutti la stessa età e andavamo davvero d’accordo».
Ricorda come prese la notizia della morte di Scirea?
«Era all’estero per vedere una squadra che avrebbe dovuto giocare contro la Juve. Prese un taxi e purtroppo ci fu questo incidente dove perse la vita. Per noi fu una notizia terribile, una botta pazzesca, difficile da accettare. Era una grande persona e meritava una sorte diversa. Non è stato un periodo semplice».
Con lui, però, ha vissuto la gioia del mondiale…
«Il mondiale va visto in due fasi. Nella prima avevamo tutti i giornalisti contro e infatti abbiamo ricevuto diversi attacchi, c’era addirittura chi diceva che saremmo usciti subito. Poi, dopo alcune difficoltà iniziali, con l’avanzare del torneo abbiamo lasciato tutti a bocca aperta. Con Argentina e Brasile, due delle favorite, la squadra si è trasformata. I tifosi ancora si ricordano di quel mondiale, è stato un percorso incredibile».
Contro Brasile e Argentina lei aveva il compito di marcare Zico e Maradona. Con chi dei due è stato più difficile?
«Con due campioni del genere è sempre difficile, erano giocatori di enorme valore. Quando Bearzot mi disse che avrei dovuto marcare Maradona rimasi sveglio per quasi tutta la notte perché non me l’aspettavo, infatti pensavo di dover marcare Kempes. Il mister, però, spiegò che secondo lui ero la persona più indicata per marcare il numero 10 e così accettai. Guardai diversi filmati con l’obiettivo di studiare tutti i suoi movimenti, cercando poi di renderlo il meno pericoloso possibile. Mi è riuscito bene».
È vero che Maradona si rifiutò di scambiare la maglia con lei?
«Non mi diede la maglia a differenza di tanti altri campioni. È stato l’unico a rifiutarsi. Evidentemente la sconfitta fu talmente pesante da digerire che perse anche la cognizione sportiva. Che si vinca o che si perda, la maglia se si chiede va data».
Poi l’ha soprannominata più volte «killer»…
«Non sono mai stato espulso per gioco violento nonostante abbia giocato più di 500 partite. Lui invece sì e per diverse volte. È come se qualcuno arrestato per furto desse del ladro a qualcun altro. Cercò di giustificare la sua sconfitta dicendo che giocavo in modo violento, non ha saputo accettare il risultato».
Un mondiale, quello del 1982, scandito anche dalla figura di Sandro Pertini.
«Pertini è stato incredibile. Ricordo che quando tornammo in albergo si lasciò andare e disse: “Non avete idea di quanto bene avete fatto all’Italia”. È stato un momento bellissimo, che tutt’ora ricordo con emozione».
È stata la gioia più grande della sua carriera?
«Al fischio finale contro la Germania è stata una gioia immensa, quasi non ci credevamo. Ho vinto tanto anche a livello di club, dove ho provato emozioni forti. Vincere il mondiale, però, ti fa rimanere nella storia».
Da allenatore, invece, si è seduto sulla panchina della nazionale under 21 conquistando ottimi risultati. Tra questi la vittoria dell’Europeo e la medaglia di bronzo alle Olimpiadi nel 2004. È vero che nel 2006 è stato cercato dalla Juve?
«La Juve mi voleva e io sarei andato a Torino anche a piedi. La federazione, però, mi aveva detto che mi avrebbero promosso ad allenare la nazionale maggiore. Mi contattò la dirigenza della Juve e dissi che prima avrei dovuto parlare con la Figc per capire il mio futuro. Mi venne detto di restare perché avrei preso il posto di Lippi dopo il mondiale, quindi decisi di dire no ai bianconeri. Pochi giorni dopo mi chiamò il commissario della federazione e mi comunicò che sarei rimasto in Under 21. Passò ancora qualche giorno e improvvisamente mi venne tolto pure quell’incarico. Non ho mai capito il perché».
E da quel momento ha più ricevuto offerte?
«Ho ricevuto diverso proposte dall’estero, ma non dall’Italia. La mia volontà era quella di restare qua, eppure non ho potuto continuare. Credo che nel corso della mia carriera mi sia fatto alcuni nemici. Quando allenavo l’under 21 venivano i procuratori con valigette di soldi per cercare di convincermi a far giocare i loro assistiti. Io, però, non ho mai preso calciatori raccomandati. Questo, secondo me, non è piaciuto a molti».
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