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martedì 25 Luglio, 2023

Come eravamo, noi dolomitici, nel Sessantuno

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L’unità della gente dolomitica al di là dei confini amministrativi raccontata nel libro «Dolomiti», di Alfonso Vinci ed Emilio Frisia

Come eravamo, quando eravamo quelli che più non siamo?
Bastano sessant’anni, un paio di generazioni, per dire che non siamo più quelli. Che il mangiare, il lavorare, l’abitare, il fotografare sono irrimediabilmente cambiati. E noi con loro.
Il libro fotografico «Dolomiti», di Alfonso Vinci ed Emilio Frisia, serie fotografica di Itinerari italiani dell’Automobile Club Italiano a cura di Lorenzo Camusso, è datato 1961: costruivano il Muro di Berlino, stava per cominciare il Concilio Vaticano II, De Gasperi era morto in Val di Sella sette anni prima, il Dellai sgambettava i suoi due anni a Candriai e non era ancora stato concepito il primo presidente salvinista della Provincia autonoma di Trento.
I curatori del bellissimo volume – foto prevalentemente in bianconero, di impronta alpinistico-antropologica, solo poche a colori – vogliono dimostrare l’unità della gente dolomitica al di là dei confini amministrativi. E scelgono questi tre tipi umani per raffigurare in modo emblematico le tre province di Trento, Bolzano e Belluno. Che radicavano ancora nell’agricoltura la loro vita economica. (Le imprese agricole in Trentino superavano quota 16mila nel 1985, sono scese a 6.509 nel 2022).
Non c’era ancora l’Autostrada del Brennero ad attraversarci il fondovalle dell’Adige e a portarci milioni di viaggiatori e di tonnellate di merci da tutta l’Europa. Insomma, eravamo ancora terra di montagna, dagli orizzonti forse più rassicuranti ma anche più stretti e più chiusi.
La didascalia del volume dell’Aci sfuma il riferimento specifico alla valle di residenza di quel fiero homo tridentinus e recita così: «Contadino trentino, guida altoatesina di Sesto, ragazza della valle di San Lucano». La bellezza agordina posa sorridente, ironica forse, con il gomito sinistro appoggiato al manico di un attrezzo contadino, rastrello o vanga che sia. Dunque è contadina, seppur magari solo part time, pure la fanciulla veneta. Restiamo su di lei, mora con qualche ricciolo ribelle, sguardo furbo, posa disinvolta: forse, se l’occhio non inganna, sopra il grembiule decorato di piccoli soli e lune, scopre perfino un centimetro di pelle (ma potrebbe esser biancheria). Comunque, una dolomitica fresca e sveglia, che pensa positivo.
Fiducioso sorride anche l’altoatesino (di Sudtirolo, s’intende, non si parla in questo libro dolomitico) e l’abito delle feste, la cravatta scura e il cappello borghese fan contrasto con il suo essere guida alpina pusterese e dunque accompagnatore di turisti ardimentosi sulle vie ferrate e sulle rocce, appena prima dell’era dell’assalto di massa alle Dolomiti.
Il trentino invece sfoggia un berretto che potrebbe essere anche marinaro (o di uno studente tedesco anni Venti), un baffo di impronta asburgica, una camicia a quadretti contadina e un’espressione quasi di sfida, davanti al suo maso: chi sei tu fotografo – sembra dire – che ti interessi a una faccia così? Una faccia da Toni, da Bepi, da Mario: quel contadino non si chiama certo Leonardo, Mattia o Federico, nomi da studenti che nasceranno un secolo dopo di lui, e ormai non hanno più quel baffo e quei quadretti.
Quella faccia un po’ così, quello sguardo un po’ così, che abbiamo noi che abbiamo visto i Mòcheni.