Anni di piombo

giovedì 31 Ottobre, 2024

Curcio e Brigate Rosse per la sparatoria di Cascina Spiotta dove morì anche Mara Cagol

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Finirà davanti al giudice con Moretti e Azzolini per la morte del carabiniere D’Alfonso. Nel conflitto a fuoco tra i brigatisti che avevano rapito l’industriale Vallarino Gancia e i militari perse la vita la trentina Margherita (Mara) Cagol

Le lancette della storia fanno marcia indietro. E dopo un giro vorticoso si fermano al 5 giugno 1975, giorno in cui alla Cascina Spiotta, nell’Alessandrino, in uno scontro a fuoco tra carabinieri e Brigate Rosse trovarono la morte la trentina Margherita “Mara” Cagol e l’appuntato Giovanni D’Alfonso. Ma la giustizia italiana non si occuperà dell’uccisione della prima, piena di ombre, e dei sospetti su un’esecuzione a sangue freddo (avvalorata da una perizia) quando la giovane trentina già si era arresa e si trovava a mani alzate. Il processo che si aprirà il 25 febbraio davanti alla Corte d’assise di Torino verterà infatti unicamente sulla morte del secondo. E riguarderà anche Renato Curcio e Mario Moretti, i capi storici delle Br (83 anni il primo, 78 il secondo) che ieri sono stati rinviati a giudizio – come chiedeva la Procura – dalla gup Ombretta Vanini.
Con loro anche Lauro Azzolini, 81 anni, altro dirigente di punta dell’organizzazione (durante il sequestro Moro faceva parte del comitato esecutivo), mentre sempre il gip ha disposto il proscioglimento per Pierluigi Zuffada, perché l’accusa di concorso anomalo nella morte di D’Alfonso, così come era stata configurata dalla Procura torinese, è stata giudicata prescritta. In quella cascina nella zona di Acqui Terme, dal giorno prima, il partito armato teneva sequestrato l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, rapito a scopo di autofinanziamento. Assieme a Margherita Cagol c’era un secondo brigatista, che nel corso della sparatoria riuscì a fuggire senza poi mai essere individuato.
Per quest’ultimo i sospetti dei magistrati, sollecitati da un esposto di Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere che perse la vita, riguardano in particolare Lauro Azzolini, oggi ottantunenne, per via di undici sue impronte digitali, individuate dal Reparto investigazioni scientifiche (Ris) dei carabinieri, su un memoriale che le Brigate Rosse chiesero al loro militante sopravvissuto alla sparatoria. A carico di Azzolini risultano però anche delle più recenti intercettazioni, delle quali il suo avvocato Davide Steccanella ha però eccepito l’illegittimità. Un giudizio che il gip ha invece demandato alla stessa Corte d’assise che dovrà giudicarlo, riconoscendo così l’esistenza di un problema. Anche nel caso di Zuffada, 79 anni, erano state trovate sue impronte sulla lettera di richiesta di riscatto – un miliardo di lire – fatta pervenire dalle Br all’avvocato della famiglia Gancia. Elementi che però, al massimo, potevano indicare il suo ruolo di “postino”, non essendo mai stata provata la sua presenza alla Spiotta durante la sparatoria.
È evidente, comunque, che al di là delle accuse ad Azzolini, colpisce il coinvolgimento di Curcio e Moretti. Sono nomi che rimandano a una stagione lontanissima su cui, più che i magistrati, dovrebbero essere ormai gli storici a dire la propria. Curcio delle Br è stato addirittura il fondatore, proprio assieme alla trentina Margherita Cagol (“Mara” era il nome di battaglia) che aveva conosciuto anni prima alla facoltà di Sociologia di Trento, allora ancora Istituto superiore di Scienze sociali, poi sposandola. Moretti fu invece a capo dell’organizzazione durante il rapimento Moro. Pur progettandolo, entrambi non parteciparono in prima persona al sequestro Gancia: all’epoca erano alla guida di quelle che sarebbero più avanti diventate le vere e proprie “colonne” brigatiste di Milano e Torino: Curcio tra l’altro era da poco evaso dal carcere e per questo non andava coinvolto in operazioni del genere, per la sua immediata riconoscibilità.
L’inchiesta nel loro caso riguarda invece un altro documento interno alle Br (o presunto tale: la circostanza è infatti altamente controversa), in cui si dettagliava il comportamento da adottare in caso di scontri a fuoco con la polizia. Il che, secondo la Procura, integrerebbe il reato di concorso nell’omicidio dell’appuntato D’Alfonso. E visto che un delitto non va mai in prescrizione, oggi la giustizia si trova in mano una vicenda vecchia di cinquant’anni, con indagati ormai molto avanti con l’età dopo decenni passati in carcere. E contro i quali, paradossalmente, gli elementi d’accusa sono contenuti in loro libri (“A viso aperto” di Curcio, scritto con Mario Scialoja, e “Brigate Rosse: una storia italiana” di Moretti, scritto con Rossana Rossanda e Carla Mosca) pubblicati ormai tanti anni fa.