L'INTERVISTA

sabato 17 Agosto, 2024

Da Borgo Sacco ad attore per «I Cesaroni», Giancarlo Ratti: «A 17 anni persi l’occasione della mia vita con Luca Ronconi»

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L'Antonio Barilon della celebre serie andata in onda su Canale 5: «Da ragazzino raccoglievo uva e mele a San Giorgio, Bossi Fedrigotti ci pagò i contributi e ora, grazie a loro, sono in pensione»

A Varese è marito e padre (di due ragazzi, di 20 e 22 anni) mentre a Roma indossa panni che non sono suoi. Sembrerebbe un indovinello, ma per Giancarlo Ratti, professione attore, sdoppiarsi non è un problema, anche se gli amici lasciati a Rovereto cinquant’anni fa li incontra sempre meno: il pendolarismo macina le ossa. Classe 1952, interprete di ruoli brillanti, cordiale, spiritoso, ma anche irridente, sa mettere in scena una sincerità spiazzante. Ama giocare anche fuori dal palcoscenico, come quando si presenta pigro, “smisuratamente indolente e maleodorante” mentre consuma bottiglie di profumo. Da lui ti aspetti i fraseggi tronchi, trentini, con cui contrappunta “Il ruggito del coniglio” (trasmissione Rai di grande successo nel cui cast Ratti milita da 20 anni), o la mite rozzezza del veneto, un po’ nasale, di Antonio Barillòn (un padovano in trasferta alla Garbatella, personaggio della serie TV più amata: “I Cesaroni”) invece l’eloquio è toscaneggiante e anche questo disorienta. Un toscano che pensa in trentino: lo dimostra il suo modo semplice di rapportarsi con le persone, privo di supponenza. Partito dalle retrovie dello Zandonai dove da ragazzo faceva il donzello (la febbre da palcoscenico inizia spesso così), è arrivato alla scuola del grande Ernesto Calindri, l’uomo della famosa bevanda al carciofo “contro il logorio della vita moderna”. Un diploma al Liceo scientifico di Rovereto, uno all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, poi tanto teatro, commedie radiofoniche al fianco di Sandra e Raimondo Vianello, Maria Amelia Monti, Daniele Formicola, Caterina Guzzanti, Max Paiella… Poi, con Neri Marcorè e a Piero Dorfles in “Per un pugno di libri” e in vari film tra cui “Colpo d’occhio” di Sergio Rubini, “Volevo nascondermi”, di Giorgio Diritti sul pittore Antonio Ligabue e “Pare parecchio Parigi”, di Leonardo Pieraccioni.
Test d’ammissione per chi dice d’essere di Sacco: si sente saccardo o saccense, come vorrebbe l’Accademia della Crusca?
«Ma saccardo, naturalmente. Abitavo in Via Passo Buole, da dove me ne sono andato a 20 anni. Papà era arrivato qui nel 1952 lavorava alla Manifattura Tabacchi, poi è stato raggiunto da mia madre. Erano entrambi di Carrara».
Un’immagine della sua gioventù?
«Rovereto, per i saccardi veraci di un tempo, era semplicemente la stazione ferroviaria, così l’immagine che voglio offrire è quella di me stesso, liceale, che mi scapicollo in bici alla volta di Corso Bettini per andare a scuola».
Nel suo fraseggio ruggisce il toscano, ma in TV trionfa il trentino.
«Quando m’arrabbio, m’arrabbio in trentino e se qualcuno mi taglia la strada escono improperi nostrani. In TV e a teatro sono quello che serve essere. Al provino per “I Cesaroni”, per esempio, pensavano che fossi realmente di Padova. Man mano, però, ho fatto perdere al personaggio ciò che non m’apparteneva. Oggi Barilòn è roveretano».
La serie de “I Cesaroni”, dopo più di 10 anni dall’ultima registrazione, continua a essere trasmessa con successo.
«È vero, è stato un successone. Claudio Amendola, che nel frattempo è diventato anche autore e regista, ha ipotizzato una settima stagione».
Quando decise di fare l’attore?
«Mi sono innamorato del teatro in quarta Liceo, quando fui preso come comparsa, in una scena che si svolgeva proprio nella piazza di Sacco, da una compagnia teatrale fondata al Dams di Bologna. Teatro d’avanguardia: dovevo essere un carnefice che fustigava dei prigionieri. Giovane e pieno di temperamento, menavo a più non posso finché qualcuno mi apostrofò con un sonoro “Ahia! È finzione, sai?!”. Fu un debutto fu convincente».
Soddisfatto di quanto ha realizzato?
«Sì, sono riuscito a mangiare due volte al giorno, e anche di più; ho girato l’Italia in lungo e in largo, il mondo meno. Però sono stato in Spagna, Turchia, Svizzera… Certo, ci sono attori che fanno tournée importanti, però l’Italia io l’ho girata davvero tutta. Quando qualcuno mi dice “Ah, noi andiamo a…” io rispondo “Ma tu, a Ceglie Messapica ci sei mai andato? E a San Pietro Vernotico? Calabria, Sicilia, Trentino… ma che vai cercando, all’estero? Dunque, sì, sono felice di aver vissuto del lavoro che avevo scelto sin da ragazzo e da cui sono andato in pensione grazie ai Conti Bossi Fedrigotti».
In pensione grazie ai Conti Bossi Fedrigotti?
«Certo, grazie alla lungimiranza della loro amministrazione mi sono trovato i contributi pagati per le giornate passate, da ragazzino, come tutti “i boci” di Sacco, nell’azienda di San Giorgio a raccogliere uva e mele, Arrivato il momento di fare il calcolo degli anni lavorati ai fini pensionistici, ho fatto la piacevole scoperta: Bossi Fedrigotti ci aveva messo tutti “in forza”. Così a 65 anni, con 42 anni e 10 mesi di lavoro, ho potuto andare in pensione».
Torna spesso a Rovereto?
«Non tanto spesso quanto vorrei. Ovvero, se avessi meno pigrizia e un po’ più di forza di volontà… Da Varese si impiegano solo 3 ore per arrivare qui. Il fatto è che metà di me vive in Lombardia, il marito e padre, l’altra metà a Roma, quella dell’attore. Faccio continuamente avanti-indietro, è pesante, così cerco di non mettere ulteriori carichi. Anche a Carrara, dove sono sepolti i miei genitori che vorrei andare a salutare, manco da tanto.
Questa volta a Rovereto l’ha portata un’occasione assai triste.
«Sì, il funerale di Franco Toldo, un grande amico, mio coetaneo, compagno di scappatelle durante le gite scolastiche del liceo: ovunque fossimo tagliavamo la corda per andare a cercare un posto in cui mangiare bene. Se n’è andato troppo presto».
Lei interpreta personaggi divertenti, magari ingenui, o caustici e l’esuberanza, quando non è bullismo gratuito, è spesso indice di timidezza. Lei si considera timido?
«Mi intimidisco quando mi fermano per strada ringraziandomi. Dicono di vedere in me uno di famiglia, che “Il ruggito del coniglio” fa cominciare le giornate meno faticosamente, accompagnando al lavoro col sorriso. Loro per me sono sconosciuti, io sono “uno di famiglia”. L’imbarazzo è assicurato».
Ci racconta un aneddoto?
«Le posso dire di avere perso Luca Ronconi quando avevo 17 anni. In Piazza Santa Croce, a Firenze, l’ho conosciuto, gli ho parlato, avrei potuto seguirlo a Spoleto, ma ignoravo che fosse uno dei più grandi registi europei, che assieme a Strehler sarebbe diventato il capofila del teatro italiano nel mondo… Avevo un’autostrada spalancata davanti e non l’ho vista. “Ho perso Ronconi”, così, è diventato il mio tormentone».
Ora a cosa sta lavorando?
«Con Nino Formicola e Max Pisu stiamo portando a teatro “Forbici e follia”, spettacolo giallo-comico. Ma a Rovereto non ci vogliono. Questa è una cosa che mi dispiace molto. Trovo che a Rovereto ci sia una sorta di ostracismo nei miei confronti. Ci terrei a tornare allo Zandonai, dove ho recitato solo una volta. Comunque, tra le novità, attorno a Natale, uscirà su Rai Uno il film «Un’altra me», prodotto da Luca Barbareschi. Vi recito in un bel ruolo, “fluido”, perché io cambio genere dal mattino alla sera. Mi si potrà vedere anche in un ruolo carino su Netflix, in «Maschi alfa e maschi veri» e nel film del comico romano Maurizio Battista «Tu quoque». Posso essere più di una cosa, sa, benchè abbia perso Ronconi!»