la grande intervista
mercoledì 21 Febbraio, 2024
di Claudia Gelmi
Ha sette anni quando, nel 1943, insieme ai genitori e alle due sorelline, viene condotta in un campo di concentramento destinato ai traditori della patria, in quanto dopo l’armistizio i suoi genitori si rifiutarono di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò. La bambina in questione è Dacia Maraini, il campo di prigionia si trova in Giappone, dove la famiglia si era trasferita pochi anni prima. Ottant’anni dopo l’ingresso in quel luogo di stenti, dolore, umiliazione e violenza, la scrittrice ha in qualche modo «fatto esplodere» l’argomento che, come dichiara lei stessa, aveva prima solo accennato nei suoi libri, «ma non mi ero mai soffermata sulle giornate da internata e su come abbiano segnato la mia vita». Dall’urgenza di raccontarle, quella storia e quella bambina, è nato «Vita mia. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia», uscito l’anno scorso per Rizzoli. «Vita mia / lasciati raccontare» esorta infatti Maraini in questo delicato quanto duro romanzo, di cui si potrà ascoltare dalla viva voce dell’autrice una più esaustiva narrazione. Dacia Maraini è attesa in Trentino-Alto Adige nei prossimi giorni: farà una prima tappa a Bolzano alla Nuova Libreria Cappelli domani alle 17, per poi approdare sabato alle 18 a Riva del Garda, al Palazzo dei Congressi (l’evento è organizzato dalla biblioteca civica), dove dialogherà con Alberto Maganzini e sarà accompagnata da un intervento musicale a cura del Conservatorio di musica F.A. Bonporti, con la fisarmonica di Gabriele Corsaro.
Saranno, entrambe, occasioni per approfondire insieme alla scrittrice anche altri aspetti della sua inestimabile produzione letteraria, come il più recente «In nome di Ipazia», accorato manifesto-appello sul destino e sulle lotte delle donne contro ogni stereotipo e violenza. Ma anche per ascoltare racconti e visioni di un’intellettuale la cui voce ha segnato la storia della letteratura italiana.
Dacia Maraini, attraverso il suo prezioso patrimonio letterario si può leggere la grande storia del mondo, quella più circoscritta del nostro Paese, e in controluce anche la sua biografia. Nel suo recente romanzo, «Vita mia» (Rizzoli, 2023), autobiografia e storia del mondo si fondono nella tragedia della Seconda guerra mondiale. Perché ha sentito di dover raccontare solo ora la sua infanzia trascorsa nel campo di concentramento in Giappone tra il 1943 e il 1945?
«Questo libro l’ho cominciato anni fa. Cominciato e poi lasciato, ripreso e ancora una volta interrotto. Non riuscivo a portarlo avanti per una forma di pudore doloroso. Ora però, in questi tempi di minacce guerresche ho capito che dovevo finirlo e pubblicarlo per fare capire, anche se in forma personale e minuta, cosa significa vivere da bambini in un tempo di guerra».
Ritiene vi sia un continuum storico tra «quei» lager e le guerre contemporanee?
«Ogni guerra porta odio, discriminazione, paura, dolore, feriti e morte. Ogni guerra, anche solo ideologica, fa aprire campi di concentramento».
Nel suo recente saggio «In nome di Ipazia» (Solferino, 2023) ha voluto dare voce simbolicamente a tutte le donne che nel mondo combattono per la loro libertà e dignità, per la loro esistenza. Gli esempi da cui parte per questo excursus corale sono appunto Ipazia, ma anche Antigone. Cosa rappresentano oggi queste due figure?
«Sia Ipazia che Antigone rappresentano la disobbedienza al potere costituito quando questo pretende di imporre leggi ingiuste e disumane».
Questo testo sembra scritto per le ragazze e i ragazzi di oggi, un dono per il futuro. Cosa si sentirebbe di dire alla generazione che si affaccia all’età adulta?
«Ai nuovi giovani che si apprestano a entrare nel mondo delle professioni raccomanderei di volersi bene. Purtroppo la società globalizzata tende a diffondere sfiducia nel futuro e in se stessi. Inoltre raccomanderei di non lasciarsi schiavizzare dalla tecnologia che promette libertà ma finisce per incarcerarti nelle sue lusinghe. E ancora raccomanderei di sviluppare l’immaginazione, quella soffocata dagli stereotipi, perché l’immaginazione ci aiuta a capire e giudicare con originalità».
Quali sono a suo avviso le istanze più urgenti che il mondo contemporaneo dovrebbe affrontare?
«Prima di tutto la pace e di seguito la democrazia. Poi, in Italia: la sanità, la scuola, la giustizia».
Lei è stata una delle persone più vicine a Pier Paolo Pasolini (ricordiamo il suo «Caro Pier Paolo», Neri Pozza, 2022). Quali sono i ricordi più cari che ha di lui e qual è la sua eredità più significativa?
«Non posso ora elencare i ricordi più cari, sono tanti e chi vuole conoscerli potrà trovarli nel mio libro “Caro Pier Paolo”. Posso solo dire che Pasolini è stato un amico caro il cui affetto e la cui sincerità mi mancano. La sua eredità? Una continua e fortissima critica del potere e la decisione di dire sempre la verità, costi quel che costi».
Da Pasolini al 2024. Quale ruolo hanno oggi gli e le intellettuali? Sono ancora in grado di essere così incisivi e «totalizzanti» nel dibattito pubblico?
«Ci sono anche oggi intellettuali impegnati che dicono il vero e vengono minacciati per questo. Ma la differenza fra i veri intellettuali sinceri e onesti e quelli che giocano con l’impegno si vedrà solo dopo: “ai posteri l’ardua sentenza” come dice saggiamente Manzoni».
La sua esistenza, fin dall’infanzia, è stata costellata di viaggi, cambiamenti di «scenari» e incontri significativi. C’è un luogo del mondo a cui si sente più affezionata?
«Certamente il Giappone, con il suo bene e il suo male, è il Paese che sento più vicino e che fa parte delle mie memorie primarie».
A quale libro che ha scritto è invece più legata? E c’è un personaggio – tra i suoi – che ha più amato?
«“Sono tutti figli miei”, come dice Filomena Marturano».
Un’ultima battuta, in vista del suo incontro di sabato a Riva. Ha un legame particolare con la zona del lago di Garda?
«Sì, ho vissuto sul lago di Garda con mio marito Lucio Pozzi. Anzi abbiamo festeggiato il matrimonio proprio lì, nella casa e nel giardino di mia suocera, Ida Pozzi. Sono stati anni belli e felici, salvo quando sono rimasta incinta e ho dovuto restare immobile per il pericolo di un aborto spontaneo. Nonostante l’immobilità, dopo sette mesi ho perso il figlio. Quindi Garda per me conserva ricordi bellissimi, belle passeggiate sul lungo lago, grandi nuotate nelle sue acque e poi una immobilità di mesi in una stanza da cui guardavo con nostalgia le onde lontane».