libri e letture

sabato 6 Aprile, 2024

Dalla strage di San Lorenzo al delitto Matteotti: il fascismo alle basi del fascismo. Ecco le novità in libreria

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Le letture consigliate da Carlo Martinelli: Nei testi di Gabriele Polo e Vittorio Zincone emergono gli elementi che caratterizzarono la violenza squadrista del regime

«Senza la violenza, Mussolini non avrebbe mai vinto. Senza lo squadrismo, gli omicidi, gli assalti alle camere del lavoro, i saccheggi, le bastonature, il ricorso strafottente alla sopraffazione delle armi, il fascismo non avrebbe conquistato il potere. Senza la complicità esplicita delle istituzioni dell’Italia liberale preposte all’uso della forza per il mantenimento dell’ordine pubblico, le camicie nere sarebbero rimaste un manipolo di facinorosi privo di prospettive politiche. Sono altrettanti punti fermi di un annoso dibattito storiografico che ha un solido comune denominatore legato proprio al nesso strettissimo tra violenza e fascismo proposto come spiegazione del trionfo di Mussolini». In queste parole dello storico Giovanni De Luna sta la chiave di lettura di due libri freschi di stampa. Pagine necessarie, ideale accompagnamento ai saggi che il trentino Francesco Filippi ha sfornato – con successo che va ben oltre i confini italici – per strappare il velo di comprensione e di arrendevolezza, quando non peggio, che sovente accompagna il dibattito sul fascismo. Lo ha fatto a partire dai titoli – «Mussolini ha fatto anche cose buone» e «Noi però gli abbiamo fatto le strade» – per smontare, pezzo per pezzo, ricorrenti retoriche e interessate omissioni. Perché il fascismo è stato anche «Assalto a San Lorenzo», titolo dell’indagine storica di Gabriele Polo (Donzelli editore, 110 pagine, 16 euro) che ci restituisce un pezzo dimenticato del nostro passato, la prima strage del fascismo al potere. È nell’introduzione (il saggio propone anche un testo finale di Edith Bruck dal titolo emblematico: «Dovere della memoria») che troviamo le parole di De Luna citate in apertura. Già. Quanti sono a conoscenza di quel che successe il 30 ottobre 1922, mentre le ultime colonne della marcia su Roma entrano in città e Mussolini presenta al re la lista dei ministri del suo primo governo? Accade che un centinaio di fascisti armati fa irruzione nel quartiere di San Lorenzo e apre il fuoco contro passanti e abitanti. Un attacco del tutto gratuito, politicamente inutile ai fini della conquista ormai avvenuta del potere, privo di qualsiasi logica, se non quella della vendetta. Gli squadristi hanno come unico obiettivo quello di punire gli abitanti di una zona della capitale in cui non sono mai riusciti a entrare e dove, quando hanno provato a farlo, per ben tre volte sono stati sempre respinti. Ne nasce un lungo conflitto a fuoco tra camicie nere, esercito e militanti dei partiti di sinistra che lascerà sul terreno un numero imprecisato di vittime (Polo ne individua otto) tra gli abitanti del quartiere. Il generale Pugliese fa trasportare i corpi al cimitero del Verano, per seppellirli «senza cerimonia funebre, per evitare nuovi disordini». Di quei morti e della loro storia si perderà traccia e memoria. A poco più di cento anni di distanza, il giornalista Gabriele Polo ricostruisce la genesi e la cronaca di quella giornata, restituendo un volto e una voce a chi ne rimase vittima e allo stesso tempo riportando alla luce le tensioni che attraversarono quei momenti. La strage di San Lorenzo, oscurata e rimossa, è episodio emblematico, nel quale ritrovare gli elementi che, da quel momento in poi, caratterizzeranno l’era fascista: la violenza, l’eversione, l’impunità e la propaganda, che trasformerà gli atti criminali di quei giorni nel mito della rivoluzione del duce.
Meno di due anni dopo, è il 10 giugno 1924, alle quattro e trenta di pomeriggio, sei criminali della cosiddetta Ceka fascista, la polizia politica clandestina il cui elemento di spicco è Amerigo Dumini, aspettano il deputato socialista Giacomo Matteotti sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma. Lo circondano, lo picchiano e lo trascinano in auto. Matteotti reagisce, una lama gli trafigge il costato uccidendolo. Mussolini finge di non saperne nulla. Sette mesi dopo, quando il regime sotto accusa sembra traballare, il Duce si prende la responsabilità politica di quell’omicidio. L’anno successivo instaura una dittatura destinata a durare fino al 1943. Chi fosse Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo, lo racconta bene il giornalista Vittorio Zincone in «Matteotti dieci vite» (Neri Pozza, 332 pagine, 20 euro), biografia documentata, appassionata. Che muove dalle radici trentine di Matteotti, nato nel 1885 a Fratta Polesine: il nonno Matteo, calderaio e ramaio, vi emigra da Comasine, in Val di Peio e apre un negozio di fronte alla villa della Badoèra, capolavoro palladiano. Morirà ammazzato durante una rissa davanti alla sua bottega, colpito alla testa. Il padre di Giacomo, Girolamo, eredita l’attività e la sviluppa grazie ad una serie di investimenti immobiliari. Sì, Giacomo Matteotti è figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, antiretorico, antipopulista e molto coerente nei comportamenti. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che vede avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. È la storia di un uomo che alza la voce e che per questo viene fatto tacere per sempre dalla canaglia fascista.