l'intervista
domenica 2 Febbraio, 2025
di Elisa Salvi
È molto più che un omaggio a Maria Piaz, «Come fiori nel cemento» la prima personale del fassano David Romelli, all’Ipogeo Pigneto presso Necci di Roma, dal 14 al 16 febbraio, nell’ambito della rassegna «Pigneto in love». Quella di Romelli è una fine raccolta di fiori di ceramica, stilizzati e dai colori dolomitici, tutti rigorosamente fatti a mano e dedicati a quella trisavola che da sempre è una presenza importante nella sua famiglia.
Maria Piaz (1877 – 1971) ha avuto una vita epica: il suo carattere forte e ribelle l’ha portata da ragazzina a diventare rilegatrice di libri, attrice, pastora e governante in un maso e, da adulta, imprenditrice al Passo Pordoi con l’apertura dei primi rifugi, nonché a separarsi (a quel tempo!) dal marito per incompatibilità di carattere. Sorella del celebre scalatore Tita Piaz, Maria ha trascorso anche tre anni in carcere per aver accompagnato, di notte al Fedaia, due irredentisti oltre confine: una storia ben narrata (attraverso lettere e la registrazione in cd della sua voce e del figlio Francesco) nella pubblicazione «Dal Pordoi a Katzenau» (2007), a cura di Luciana Palla.
Questa donna è un’autentica ispirazione per Romelli, 46 anni con esperienze nella moda e come chef prima di accostarsi al design artistico.
Romelli, cosa ha rappresentato per lei Maria Piaz?
«Da “nonna Maria” e dal bisnonno Francesco, che hanno sempre avuto un rapporto simbiotico tanto da ideare assieme e realizzare la funivia del Sass Pordoi, penso di aver ereditato la visione innovatrice e il coraggio di cambiare. Nonna Maria è stata una donna volitiva, severa, una rivoluzionaria. Ha dato l’impronta alla nostra famiglia, da sempre matriarcale. Dal bisnonno, invece, credo di aver preso l’amore per l’arte. In albergo, come in una sorta di residenza d’artista, ospitava pittori, scrittori, attori. A casa abbiamo una bella collezione di quadri perché a volte veniva pagato con le opere. Tramite lui e mia nonna sono arrivate le oltre 400 foto protagoniste della mostra “Trac ce” realizzata con Flavio Rossi (compagno di vita e lavoro, ndr), nel 2023 sempre all’Ipogeo. In fondo, questa mostra di fiori è una sorta di continuum, attraverso la storia della mia famiglia, dei miei luoghi più cari».
Perché un racconto con i fiori?
«Sono simbolo di resistenza e, come sottolinea la curatrice della mostra Manrica Rotili, “i fiori ci ricordano che la resistenza non è sempre un atto di ribellione clamoroso. Resistere è anche adattarsi, reinventarsi, aggrappandosi alla speranza di un raggio di sole”. Con i fiori, poi, sono cresciuto. C’erano a casa mia, dei nonni e dei bisnonni, ci sono nei prati della Val di Fassa. Ci sono, assieme alle montagne, nei miei primi ricordi di bambino».
È ricorso alle sue radici.
«Sì, il mio approccio alla lavorazione della ceramica è molto legato alla montagna e al mio vissuto nella natura».
Un’esperienza con la ceramica iniziata pochi anni fa, ma che le ha cambiato la vita.
«È iniziata nel 2019 con un corso che mi ha regalato Flavio, perché aveva notato la mia cura nell’impiantamento delle ricette e la mia attenzione per i prodotti artigianali. Di lì a qualche mese, il Covid con la conseguente chiusura del rifugio di famiglia dove lavoravo, mi ha spinto a reinventarmi, complice la passione per la ceramica e i continui corsi di formazione e approfondimento che mi hanno fatto progredire velocemente, scoprendo una nuova parte di me. In poco tempo con Flavio abbiamo aperto l’atelier “Utol” a Roma e (anche con altri familiari) il negozio “Belebon” a Canazei, rivelando sempre nel nome il legame con la cultura ladina».
Quanti fiori ha realizzato?
«Sono partito dal papavero, per ottenere una forma stilizzata, mentre i colori si ispirano a quelli dei boccioli delle Dolomiti: gialli, lilla, celesti come i “Non ti scordar di me”, color cioccolato come la “Negritella”. In mostra ci saranno 1095 fiori, uno per ogni giorno di internamento di Maria Piaz a Katzenau. Nell’ipogeo romano, che è stato anche un rifugio dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, rappresentano un prato fiorito che termina con un vaso bianco. In sottofondo, c’è la voce di nonna Maria che racconta la sua storia in ladino (dalla registrazione per “Dal Pordoi a Katzenau”)».
Questa è la sua prima mostra da solo, si sente artisticamente maturo?
«In parte. Un po’ di paura c’è, perché con una mostra ci si mette a nudo ed essere pronti ad accogliere critiche e complimenti. Ma racconto una storia di famiglia, che è una zona di comfort».
Il palcoscenico, però, è quello romano.
«È vero, debutto in una città che non è la mia, che mi ha accolto e dove vivo bene, ma non è Canazei. Mi rassicurano, però, i curatori che seguono il lavoro mio e di Flavio che sta virando decisamente verso il design artistico, sebbene vogliamo mantenere un lato pop, accessibile a tutti».
“Come fiori nel cemento” arriverà in Val di Fassa?
«Sabrina Rasom, direttrice dell’Istituto Culturale Ladino, ha mostrato interesse e, forse, quest’estate i fiori potrebbero arrivare lì dove hanno tratto ispirazione».
la storia
di Alberto Folgheraiter
La malattia progrediva velocemente e per evitare che l’arto si staccasse (la testa del femore era ridotta a una specie di poltiglia) i medici ingessarono tutta la parte sinistra del corpo. Poi la svolta