terra madre
domenica 14 Luglio, 2024
di Daniele Benfanti
La vita dei bambini in montagna, sulle nostre montagne, a fine ottocento, come negli anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.
E la vita dei bimbi delle grandi montagne del mondo: Himalaya, Ande. Ai giorni nostri. Le differenze? Poche. Davvero poche. Purtroppo. Quinto Antonelli è l’ispiratore della mostra partita alcuni giorni fa nel Parco Paneveggio Pale di San Martino, curata da Cristina Zorzi e ospitata dall’antico fienile presso Villa Welsperg, all’imbocco della Val Canali. La mostra rimane aperta fino al 31 ottobre, con orario 9-18.
Il titolo esatto della mostra è «Storie d’infanzia con sguardi sul mondo 1870 – 1960 – 2024».
Antonelli, una prima mostra sul tema dell’infanzia in montagna, dal punto di vista storico-antropologico, fu da lei curata a Trento nel 2010, alle gallerie di Piedicastello, con un prologo proprio a Primiero nel 2009. Oggi, dopo 15 anni, qual è il passo in più?
«Il cuore della nuova esposizione è la riproposizione della mostra del 2009 ma con una finestra sulle condizioni dell’infanzia anche su altre, più lontane montagne, quelle dell’Asia, come Nepal e Tibet, o dell’America Latina, le Ande in particolare».
Che quadro emerge da questa infanzia di montagna ad altre latitudini?
«Una realtà che non abbiamo conosciuto 100-150 anni fa. Fatta di diritti negati, privazioni, povertà materiale e educativa, condizioni dure, alta mortalità».
Quali sono state le fonti di voi curatori per la parte relativa ai bambini del passato della montagna trentina?
«Molte fonti di stampo statistico, di fine ottocento. Relazioni e dati raccolti da funzionari dello stato asburgico, che fotografavano la condizione dei bambini sulle montagne trentine, il lavoro minorile, l’emigrazione».
Uno o due aspetti da sottolineare di questa «foto» in bianco e nero?
«A 5-6-7 anni la maggior parte dei bambini già lavorava. In campagna, nei campi. Soprattutto all’interno delle malghe, nella cura e gestione degli animali e nella caseificazione».
Che bambini erano?
«Solitari. Vivevano una condizione di isolamento, spesso in compagnia solo degli animali. E si attendeva in fretta che crescessero, che si irrobustissero per fare i lavori più pesanti».
Alta mortalità, diceva. Qualche dato?
«Nel 1900 tra i bambini di montagna in Trentino ne morivano 250 ogni mille… Il 25%».
A livello fotografico avete attinto ad archivi pubblici o privati?
«Soprattutto privati. C’è stata una grande partecipazione. Il lavoro è partito nel 2005, molti testimoni e protagonisti erano ancora vivi e ci hanno raccontato in prima persona le loro testimonianze di vita, d’infanzia. Dal Vanoi, dalla Valle del Cismon, ma anche dalle Giudicarie, dalla Valsugana».
Che montagna era per i bambini quella in cui nascevano e vivevano nel 1870 e fino al 1960 in Trentino?
«Una montagna madre ma anche matrigna. Non c’era nulla di bucolico. I bambini di città erano impiegati anche in lavori artigianali. Quelli di montagna solo nel rapporto con terra e animali».
Cosa cambiò il destino dei bambini di montagna negli anni sessanta del novecento?
«La scuola media obbligatoria fino ai 14 anni. Accompagnata dallo sviluppo del turismo di massa».
Le fonti per lo spaccato sui bambini di montagna delle Ande e dell’Himalaya, invece, quali sono state?
«Abbiamo collaborato con le associazioni di volontariato e cooperazione internazionale Mato Groso, Trentino for Tibet di Roberto Pinter, Associazione Senza Frontiere onlus (di Fausto De Stefani), l’Associazione Giuliano De Marchi per il Nepal onlus, fondazioni, alpinisti, missionari, diocesi».
Com’è articolata la mostra?
«In una dozzina di sezioni: Tracce, Nascere, Vivere, Neve, Giochi, Doni, Scuola, Chiesa, Lavoro, Partire e Animali».
A proposito del gioco, cosa emerge?
«Ci si accontentava, ovviamente, di poco: corde, trampoli, monopattini in legno, cerchi. Tanti giochi con la neve. Ma i giochi erano appannaggio dei maschi. Le bambine erano molto limitate. E c’era un forte controllo da parte dei preti e parroci».
Come mai una mostra di questo tipo promossa da un Parco naturale?
«Il Paneveggio Pale di San Martino ha da tempo uno spiccato interesse anche per gli aspetti storici, umani, antropologici, oltre che strettamente naturalistici, come quelli botanici e faunistici».
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