Cinema
sabato 12 Novembre, 2022
di Katia Dell'Eva
Classe 1977, nato a Rovereto ma da sempre residente in Alto Garda, Lorenzo Tamburini si è affermato come make up artist nel trucco prostetico – che spazia dalle finte ferite, alle trasformazioni dei volti degli attori – su set di fama internazionale, arrivando a vincere, nel 2019, un David di Donatello e un EFA per «Dogman» di Matteo Garrone, nonché, nel 2020, un Nastro d’argento per «Volevo nascondermi» di Giorgio Diritti. Con lui abbiamo parlato di progetti, attuali e futuri; dell’amore e delle difficoltà di un mestiere del cinema di grande precisione.
Aprendo la Sua pagina Wikipedia, ci si trova davanti a collaborazioni di rilievo, con registi come Garrone o Guadagnino. Sono però decine, i set nei quali ha lavorato. Attualmente in cosa è impegnato?
«Vengo in questi giorni da un lavoro di trasformazione su Pierfrancesco Favino, nel nuovo film di Stefano Sollima (si tratta di “Adagio”, capitolo finale della trilogia iniziata con “Romanzo criminale” e “Suburra” ndr). Inoltre, sto lavorando al nuovo lungometraggio di “Confidenza” di Daniele Luchetti e al nuovo progetto di Edoardo De Angelis, che racconterà la storia di Salvatore Todaro, capitano fascista fautore di una serie di atti eroici. Devo dire però che, in generale, dopo lo stop dovuto alla pandemia, la ripresa è stata decisamente ottima: sono molte le produzioni, soprattutto estere, che scelgono l’Italia per girare. Ad esempio, la scorsa estate, ho partecipato a “Without Blood”, film firmato da Agelina Jolie, che pur essendo ambientato in Messico, è stato girato tra Matera, la Puglia e Roma».
Qualcosa che vedremo nelle sale a breve?
«È uscito pochi giorni fa “Io sono l’abisso” di Donato Carrisi. Un lavoro davvero complesso, con un trucco importante. Basti pensare che l’attore principale doveva apparire glabro, senza capelli e senza sopracciglia, e con il cranio deformato. Un altro set a cui ho preso parte è quello della serie tv “Christian” di Stefano Lodovichi, distribuita da Sky, la cui seconda stagione dovrebbe uscire nei prossimi mesi. È tra l’altro una delle poche cose a cui ho lavorato che seguo anche come spettatore».
Film e serie tv. Quale preferisce?
«I film, perché lavorare alle serie impegna periodi molto lunghi ed è molto stancante».
E nello specifico, quale tipo di trucco la soddisfa di più fare?
«Quello realistico, perché amo le sfide. In particolare mi piace molto lavorare sugli invecchiamenti, che pure sono considerati la cosa più complessa. Certo, si tratta di un lavoro di precisione e di lunga durata: parto da un calco dell’attore (in laboratorio), per poi arrivare al viso (sul set), ma spesso ho a disposizione meno tempo di quanto me ne servirebbe e finisco per lavorare anche di notte. In passato comunque ho lavorato anche nel campo del trucco beauty».
Ci racconti, come ha iniziato questa professione?
«Per caso. Sono figlio di un meccanico e di un’infermiera e mai avrei pensato che avrei un giorno lavorato nel cinema. Studiavo al Conservatorio; suonavo il violino, uno strumento che ho abbandonato per una passione estemporanea nei confronti del grunge, che mi ha spinto a Seattle. Avevo però una grande attrazione per l’estetica – sia in termini positivi, che negativi, per i mostri -. Ed è in America che ho conosciuto le prime scuole di trucco. Tornato in Italia, a Milano, ho quindi deciso di studiare questo, scoprendo di fatto quasi subito, grazie ad alcuni set a fianco dei docenti, quale ramo preferissi».
E il primo film con effetti speciali?
«“Il labirinto del fauno” di Guillermo del Toro».
Nel 2019 arriva il David di Donatello, ha influenzato le Sue scelte?
«È stato una soddisfazione enorme, ma non ha mai rappresentato il motore delle mie scelte lavorative. Spesso i lavori li seleziono più per amicizia o rapporto umano, o per amore per il progetto stesso, che per altro. Non ho, ad esempio, registi “del cuore” con i quali sogno di lavorare. Capita però che delle volte proprio per i rapporti umani, accetti di lavorare anche in momenti dove dovrei prendere una pausa o per progetti che per le condizioni non vorrei fare. Questo, mi fa pensare al fatto che dovrei forse anche imparare a dire “no”: lavorando meno potrei dedicarmi ad altre cose, una su tutte, l’insegnamento. O anche le vacanze, che non faccio dal 2013».
In questo quadro, cosa rappresenta per Lei il Trentino?
«Casa, serenità e un bel modo di vivere. Non ho mai lavorato sul territorio, dunque questo a fatto sì che restasse una specie di oasi per allontanarsi da tutto».