La storia

domenica 23 Giugno, 2024

Dall’Ucraina a Baselga di Pinè, la storia di Tina, una delle quaranta rifugiate ospitate a Villa Anita

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La guerra è scoppiata mentre era incinta in ospedale. «Mio marito e mio figlio dormivano in un rifugio antiaereo, io nel seminterrato. Avevamo paura ad andarcene: in molti sono morti fuggendo»

Vivono sull’altopiano di Piné da circa due anni, fuggite dal loro Paese dopo lo scoppio della guerra. Sono circa quaranta signore di origine ucraina, (alcune accompagnate dal marito, altre dai figli) alloggiate presso Villa Anita, una struttura gestita dalla cooperativa «Casa». Aspettano che il conflitto termini per poter tornare a casa: anche se per alcune la casa non c’è più. Diverse di loro frequentano i corsi di lingua italiana, per poi sostenere gli esami che permetteranno di lavorare e di soggiornare più a lungo in Italia. In questi gruppi, abbiamo avuto la possibilità di conoscere Tina Olkhovska, urologa che è stata costretta a lasciare il suo Paese.
«Prima dell’inizio della guerra possedevo tutto quello che avevo sognato», racconta Tina. «Sono cresciuta in una piccola città mineraria, sul confine russo, dove c’erano molte tradizioni e usi che hanno reso piacevole la mia gioventù. Finita l’università mi sono trasferita in una città più grande dove ho trovato lavoro in un bell’ospedale. Mi sono sposata e ho dato alla luce un bambino. Io e mio marito eravamo riusciti a comprare una casa, a estinguere il mutuo e a pensare di ampliare la nostra famiglia. Nei primi mesi della seconda gravidanza ho sofferto di tossicosi che mi ha costretta a farmi ricoverare in ospedale. La prima mattina del mio ricovero, mi sono svegliata di soprassalto, con un forte rumore che sembrava un tuono. Non avevo mai visto dei temporali in questa stagione. I tuoni si sono susseguiti, assieme a urla femminili: “Guerra! La guerra!” La guerra era davvero arrivata nella nostra città».
Tina si è quindi trovata in un incubo: isolata dai suoi cari, ha tentato in ogni modo di contattarli. «Ero molto in ansia, ma le comunicazioni erano interrotte e dovevo solo aspettare», prosegue. «Finalmente dopo l’ennesimo tentativo ho sentito la voce dei miei cari. Mi sono tranquillizzata, e mi hanno messa al corrente della situazione. I nostri amici, che vivevano vicini alla prima linea del fronte, erano stati costretti a lasciare la loro casa alle quattro di mattina vestiti solo con il cappotto sopra il pigiama e in mano passaporti e soldi. Per andare dove? Erano ed eravamo tutti molto preoccupati. però ognuno di noi sperava che tutto sarebbe finito rapidamente».
Invece, la guerra è continuata. «Soprattutto le notti erano dei veri incubi», aggiunge ancora la donna. «Mio marito e mio figlio dormivano in un rifugio antiaereo, io dormivo nel seminterrato dell’ospedale. La vita era cambiata per noi e per la nostra città. Per alcuni si è fermata per sempre. Molti altri hanno perso il lavoro, altri la casa. In ospedale i medici facevano turni interminabili, senza possibilità di cambiarsi o di farsi sostituire. Non c’erano abbastanza mani, bisognava mettersi collaborare e aiutare nei vari reparti. Anche se ero ricoverata ho aiutato nel reparto pediatrico, perché non c’era abbastanza personale per curare i bambini. Le preoccupazioni maggiori riguardavano gli operatori dei servizi di emergenza che non potevano svolgere il loro lavoro di notte sotto i bombardamenti ed erano costretti ad aspettare all’interno dei rifugi».
Per Tina e la sua famiglia tutto questo è diventato in breve tempo insostenibile. «Quando gli scontri si sono spostati troppo vicino a casa nostra, mio ​​marito ha ha preso il bambino, è salito in macchina ed è venuto a prendere anche me. È stato terribile guidare passando attraverso una città dove c’erano macchine che esplodevano, carcasse ai lati della strada, bombe che cadevano in mezzo alla desolazione. Avevo molta paura di lasciare la mia città e andare via: quando erano iniziati i combattimenti nel Donbass, molti residenti erano morti per strada, mentre abbandonavano le loro case».
Abbandonata l’Ucraina, Tina e la sua famiglia sono riuscite a raggiungere la Slovenia. «Abbiamo attraversato a piedi il confine con l’Ungheria, assieme ad altri ucraini confusi e spaventati» racconta Tina. «In Ungheria abbiamo trascorso due settimane, in attesa che la guerra finisse. Poi, quando sono arrivati i nostri congiunti con le loro famiglie, abbiamo proseguito la strada per venire in Italia, attraverso la Slovenia. In Slovenia ci siamo rilassati un po’ e ci siamo calmati, perché lì la vita era normale».
Tina e i suoi parenti hanno scelto l’Altopiano di Piné per il clima simile a quello di casa. «L’Italia e precisamente l’altopiano di Piné era la nostra meta», conclude Tina. «Mia cognata si era documentata e aveva individuato un posto con un clima simile al nostro, un ospedale e un’autostrada non troppo distanti. Ora da due anni siamo qui sull’altopiano in attesa. In Italia è nato il mio secondo figlio e ci troviamo bene, ma siamo ucraini e vorremmo tornare in patria. Alcune settimane fa sono ritornata in Ucraina per sistemare dei problemi e ho visto tutto distrutto: la gente si è abituata alle sirene che annunciano le bombe e non corre quasi più nei rifugi. “Il suono della sirena arriva nel momento in cui appare la bomba: dove vuoi andare?” mi ha detto un amico che continua a lavorare come se la vita fosse normale. È vero l’uomo si abitua a tutto, ma non è giusto».