Il personaggio
sabato 9 Settembre, 2023
di Francesca Fattinger
«Ognuno è appeso a un filo di libertà», ognuno ha negli occhi la sua storia, incastrata tra pupilla e iride, non si può nascondere, emerge subito al primo sguardo, a un sorriso, a un «ciao». Incontrare Daniele Groff, parlandoci con assoluta naturalezza davanti a una tazzina di caffè, è incontrare la sua vita, i suoi sogni, la sua nostalgia, ma anche e soprattutto è incontrare la musica. Anche se in quel momento non sta suonando o non sta cantando il ritmo gli esce dal corpo e dalla voce, da ogni ricordo che condivide con semplicità e generosità.
«La musica in casa»
Il racconto parte da lontano e si è catapultati indietro nel tempo: c’è una mamma «che canticchia dolcemente per casa, non la smette mai, riprende i motivetti delle sue canzoni preferite, riempiendo con allegria e serenità gli spazi con le sue melodie» e raggiungendo un piccolo Daniele che ne viene cullato e abbracciato, entrano dentro di lui e non ne escono più, ormai anche lui è musica! E poi c’è suo papà che non gli ha «mai confessato di aver suonato in vari complessi nel Triveneto». Quando Daniele era ancora piccolino il papà prendeva lezioni di chitarra classica e la sera si metteva a provare mentre lui si addormentava nella sua stanza: «Anche l’eco di quei momenti – confessa – mi è entrata dentro per non uscirne più».
La musica quindi ha fatto parte della sua vita da sempre e all’età di sette anni arriva il momento del primo piccolo grande salto: decide «inconsapevolmente» di provare a prendere lezioni di pianoforte e poi suo padre lo iscrive al Conservatorio statale di Musica di Trento, avviandolo agli studi classici, dove si diplomerà in pianoforte. Ma entra anche a far parte del Coro giovanile dei «Minipolifonici», allora diretto da Nicola Conci: «Una realtà corale professionale che sarà per me un inizio molto importante».
Le composizioni
In seguito approfondisce anche la conoscenza dell’oboe e del violoncello, ottenendo il diploma inferiore in entrambi gli strumenti. Il mondo della musica classica e quello della musica leggera convivono dentro di lui, sono strettamente connessi e intrecciati, ma anche lasciati in qualche modo separati. Per le sue canzoni usa solo la chitarra classica: «Avevo bisogno di uno strumento dall’approccio semplice, con il pianoforte non riuscivo a ottenere quella leggerezza e semplicità, forse per l’immagine che il pianoforte portava con sé, tutti quegli stati d’animo legati alla musica classica, la tensione per i concerti e i concorsi e un ambiente molto richiedente e competitivo, una ricerca ossessiva e continua della perfezione». Con la chitarra invece c’è la leggerezza di una melodia che arriva subito ai suoi ascoltatori e alle sue ascoltatrici creando delle melodie così intime, calde e orecchiabili che difficilmente, anche con il passare degli anni, si dimenticano.
«Daisy, testo faticoso»
E poi ci sono i testi: «Con loro ho sempre avuto un rapporto difficoltoso, forse perché provenivo dalla musica classica, in cui, al di là dell’opera lirica, prevale la melodia». E poi «come ha detto Benigni – ricorda – in amor le parole non contano conta la musica». A volte il testo lo percepisce come un di più, qualcosa di troppo: «Anche se sono un cantautore tecnicamente, mi sento più un musicista». Ricorda però uno dei suoi più grandi successi, «Daisy», il suo singolo di esordio con cui ha vinto l’edizione 1998 di Sanremo famosi, «ho faticato molto a scrivere questo testo, ma è stato un bellissimo percorso, sembra un testo semplice, ma si lega ai miei ricordi di infanzia ed è pieno di citazioni». La musica popolare ha d’altronde bisogno di parole: «È sempre e comunque una ricerca di equilibri e alchimie».
La nostalgia e il ritorno
Riecheggia di frequente durante l’intervista la parola «nostalgia» che si carica di minuto in minuto di colori nuovi e diversi, è una «nostalgia» sempre molto luminosa, di qualcosa che c’è stato e di qualcosa che invece non è avvenuto, ma è anche un’energia trasformativa, un ideale e uno stimolo per guardare al futuro con quel sentimento tra le palpebre. Da qualche anno è ritornato a Trento, la sua città natale: «Mi sono goduto l’infanzia qui, ci scorrazzavo prima in bici, poi in motorino, facendo le mie prime avventure e cercando la mia indipendenza». Però con l’arrivo dell’adolescenza è arrivata la consapevolezza di avere bisogno di più stimoli: «C’era poco e nulla e con gli amici più intimi abbiamo capito che avevamo la necessità di andare altrove». Sono così iniziati i viaggi dei 18/19 anni, la passione per il brit-pop che lo ha spinto ad attraversare il Regno Unito con la sua moto, in giro per l’Europa e poi il ventennio romano. E ora di nuovo a Trento, in una città cambiata da allora, con sicuramente più proposte, ma con cui non può nascondere sempre un po’ di rapporto conflittuale, pur essendo molto riconoscente a quello che il territorio offre: «La possibilità impagabile di poter vivere più semplicemente e liberamente rispetto all’ambiente romano». Forse perché in realtà «è un uomo di mare – dice – incastrato tra le montagne».
Dalla classica alla leggera
Se gli si chiede di raccontare un momento particolarmente importante per la sua carriera, ritorna proprio a Trento, al momento del passaggio dalla musica classica a quella leggera: “sognavo di fare sentire le mie canzoni, che allora erano legate ancora al mondo della musica classica, arrangiate per quartetti suonati da amici”. Racconta in particolare il momento in cui ha cantato sul palco dell’Auditorium Santa Chiara “Spalle larghe”, una di quelle canzoni mai pubblicate, scritta e suonata per raggiungere una ragazza nel pubblico, che diventerà poi una donna molto importante della sua vita. «Ricordo ancora quel momento con estremo affetto, c’era purezza, c’era verità, avevo dentro di me l’urgenza di dire qualcosa». Uno sforzo che continua a portare avanti da allora nella sua musica: «La sto usando da sempre per capire e avvicinarmi a chi sono e non smetterò mai di farlo».