L'intervista
domenica 19 Novembre, 2023
di Simone Casciano
Un periodo sfidante, ma anche di grande crescita in cui è stata chiamata a prendere decisioni che hanno avuto un impatto significativo sulla vita di tutti gli italiani. Così Daria de Pretis definisce i suoi 9 anni alla Corte Costituzionale. La giurista trentina, ex rettrice dell’Università di Trento, ha appena rimesso il suo mandato e guarda ora al lavoro fatto in questi anni. Sono anche le scelte della Corte a disegnare l’Italia di oggi e di domani.
De Pretis con che emozione ha salutato la Corte alla fine del suo mandato?
«Eh, sa nove anni sono lunghi, è stata un’esperienza molto intensa. In particolare, per me che ero inizialmente estranea a questo ambiente. Come per tutte le cose che finiscono ora c’è un po’ di malinconia.».
Si è occupata di tante sentenze, ne ricorda una più difficile, complessa o sofferta di altre?
«Molte. Spesso la Corte si occupa di materie importanti, i casi coinvolgenti non mancano mai. Forse la scelta più drammatica è stata quella legata al tema del fine vita e del suicidio assistito. La questione di legittimità costituzionale ci fu sottoposta dal giudice di Milano che si doveva occupare del caso di Marco Cappato, a processo per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo per commettere suicidio. Ricordo che la discussione fu lunga e molto approfondita. Due punti cruciali erano in campo. Il primo era la drammaticità del tema Dell’aiuto al suicidio in generale e del caso particolare dal quale la questione nasceva. Avevamo la consapevolezza della enorme sofferenza che sta dietro queste vicende e la sensazione che fosse necessario fare qualcosa. Non era in discussione il fatto che è giusto punire chi aiuta un’altra persona a suicidarsi: chi desidera mettere fine alla propria vita è normalmente in una condizione di fragilità e l’ordinamento deve proteggerlo. In quel caso però non si poteva non tenere conto della sofferenza di chi chiedeva aiuto. E del fatto che per lui la vita non era piu degna di essere vissuta. Per questo appariva non conforme alla Costituzione considerare reato il comportamento di chi avesse aiutato una persona che si trovava nelle condizioni di Dj Fabo. Una persona affetta da una malattia irreversibile, in preda a sofferenze intollerabili, perfettamente in grado di intendere e di volere, e dunque di scegliere, e tenuta in vita da una macchina. L’altro aspetto era quello dei rapporti con il Parlamento. Era necessaria una nuova disciplina, ma non spetta alla Corte fare le leggi. Ci venne così l’idea di rinviare la trattazione di un anno, dando tempo al legislatore di lavorare. Passato l’anno senza che il Parlamento intervenisse, la Corte decise affermando che in quei casi l’aiuto non è reato».
Ci diceva in un’intervista il professore Casonato che la «Costituzione è un albero vivo che continua a dare nuovi frutti».
«È proprio così. La Costituzione, come tutto il diritto, è profondamente legata alla società. Anche i diritti che garantisce evolvono e risentono degli sviluppi della società. La sensibilità verso quei diritti e la capacità di coglierli nella società del presente sono affidate alle corti costituzionali. Corti che, a differenza del legislatore, non possono esimersi dal decidere quando viene presentata loro una questione. I grandi temi di coscienza, che riguardano la vita, la morte, i diritti fondamentali degli esseri umani, spesso finiscono sui tavoli delle corti costituzionali, perché i Parlamenti preferiscono non impegnarsi su di essi, o non riescono a farlo. Non è così solo in Italia, ma in tutta Europa e anche oltreoceano. Tocca così spesso alle Corti assumere decisioni difficili, a volte laceranti. È stato così anche per l’aborto, fu la Corte a riconoscere per prima che, a certe condizioni, la donna ha questa facoltà, quando di tratta di scegliere fra la sua vita o la sua salute e quella di chi non è ancora nato. Sono scelte tragiche che esigono di bilanciare diritti costituzionalmente protetti ma in conflitto fra loro. Questo è il cuore del lavoro della corte, bilanciare. La garanzia offerta a ciascun diritto dalla Costituzione non è assoluta, ma va bilanciata con la garanzia degli altri diritti ugualmente protetti. Lo abbiamo visto anche durante la pandemia: il diritto alla salute contrapposto alla libertà di circolazione, per esempio. La libertà di curarsi contrapposta all’obbligo del vaccino a tutela della salute altrui. Significa fare scelte difficili con la consapevolezza che tutelare un diritto, potrebbe significare comprimerne un altro. È un grande lavoro di equilibrio».
Nel suo periodo alla Corte ha lavorato con personalità importanti come Sergio Mattarella, Marta Cartabia e Giuliano Amato cosa ci può raccontare?
«Uno dei privilegi di essere giudice costituzionale è confrontarsi con persone di grande spessore, e questo è stato per me fonte di straordinario arricchimento. Il modo di lavorare e lo stile del confronto sono tali da mettere tutti a proprio agio, ponendo la discussione su un piano di grande libertà e informalità. Ciò non significa che in taluni passaggi il confronto non sia forte e anche aspro. L’obiettivo però non far prevalere il proprio punto di vista, ma raggiungere una decisione il più possibile condivisa. Alla Corte si sta assieme per molte ore in camera di consiglio, da mattina e fino a sera, immersi nella discussione. Questo consente di andare a fondo delle questioni, ma mette anche a nudo le persone, la loro attitudine a confrontarsi, la loro capacità di argomentare. Non c’è spazio per infingimenti. Ho avuto molto dai miei colleghi giudici, in particolare da alcuni, e credo che sia stato reciproco».
Che ne pensa della riforma del premierato?
«Mi pare che il dibattito sia già molto intenso, come è giusto che sia, considerata la portata del cambiamento che si vuole introdurre. Se l’esigenza di rendere più stabile l’esecutivo è legittima, va però considerato con grande attenzione come perseguirla. Occorre tenere sempre presente che ogni intervento su un tassello dell’architettura costituzionale produce un effetto domino su tutti gli altri. Ogni tessera è collegata con le altre, toccarne una significa influenzare l’intero ingranaggio. Nel merito non entro, ma personalmente tendo a pensare che, nelle istituzioni così come nelle vita, l’elasticità è un valore, perché permette di far fronte meglio alla complessità dei problemi. Il nostro sistema di governo parlamentare con un ruolo centrale del Presidente della Repubblica, che si accentua nei momenti di crisi, offre questa capacità elastica di risposta e di adattamento alle circostanze. Irrigidire le relazioni istituzionali potrebbe mettere in discussione questa capacità che io considero un pregio».
Professoressa ora cosa c’è nel suo futuro? Torna all’università?
«L’università di Trento resta nel mio cuore, ma una stagione è finita. Me ne sono andata nove anni fa da rettrice, ho pensato che sono troppo vecchia per ricominciare come se nulla fosse accaduto nel frattempo. Ho presentato le mie dimissioni in questi giorni. Però i rapporti con la mia facoltà restano ovviamente e sarò felice di fare quello che si riterrà che possa ancora fare, sia nella didattica che nella ricerca. Per ora mi prendo una pausa e mi dedico solo allo studio, forse per un periodo all’estero».
Che bilancio possiamo fare della legge delega?
«Direi che l’università ha raggiunto ottimi risultati, come dimostra la sua posizione nelle classifiche nazionali e internazionali sulla qualità della ricerca e della didattica. Non credo ci sia un sistema di finanziamento a priori necessariamente migliore, credo che a contare sia la fiducia, in chi tiene i cordoni della borsa, che l’università è un motore di sviluppo della comunità. La riforma del finanziamento dell’ateneo ha responsabilizzato la Provincia, e questo può essere in sé una buona cosa. Quello che, soprattutto di fronte alla contrazione delle risorse sia a livello locale, sia a livello nazionale, è importante non dimenticare mai è che la formazione e la ricerca sono investimenti, non costi. L’investimento nell’Università inoltre non produce solo un enorme ritorno in termini di crescita complessiva della società, ma anche in termini economici sul territorio. Chi investe su ricerca e formazione cresce».
I rapporti con la Provincia sembrano incrinati.
«Seguo da lontano le vicende dell’Università. Ho letto di qualche tensione ma mi pare che ci sia buona volontà da entrambe le parti di superare incomprensioni e costruire nel comune interesse. Frizioni possono esserci e io stessa da rettrice ne ho vissute – mi sono interfacciata con Pacher prima e poi con Rossi – ma conservo il ricordo di una Provincia generosa e attenta».
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