Il Forum
venerdì 21 Giugno, 2024
di Simone Casciano
Crescita economica che passa da appalti disegnati sulla misura delle imprese artigiane trentine, costruire la sicurezza sul lavoro come «uno stile di vita» e una collaborazione tra categorie e Provincia per formare e assumere all’estero i lavoratori di cui i settori hanno bisogno. Ha le idee chiare sul da farsi e non perde tempo Andrea De Zordo, eletto 50 giorni fa presidente dell’Associazione Artigiani del Trentino. De Zordo, noneso e co-titolare dell’azienda idraulica Centro Servizi Impianti, interviene al Forum del «T» all’indomani della presentazione della manovra finanziaria provinciale per tracciare il presente e il futuro di un settore e dell’Associazione che conta 9mila imprese e circa 30mila lavoratori.
Presidente De Zordo, cosa pensa della manovra di bilancio presentata dalla giunta provinciale?
«L’urgenza è quella di comunicare a Fugatti e alla Provincia quelli che per noi sono i temi caldi del settore. Perché come rappresentanti degli artigiani, un tessuto economico di 9mila imprese ma per lo più piccole, abbiamo la necessità che la politica ci sostenga, comprenda le nostre particolarità e capisca quanto sia importante valorizzare aziende che operano sul territorio trentino e che contribuiscono in esclusiva al Pil provinciale. Sono diversi i modi per sostenerci, il primo è assolutamente quello di ridurre le dimensioni degli appalti, rendere gli importi e le commesse più centrate sulle taglie delle nostre aziende. Ho riscontrato più volte quanto sia drammatico il fenomeno del subappalto a cascata. E si è visto anche in recenti fatti di cronaca come l’abuso di uno strumento legittimo possa degenerare in un cappio al collo delle nostre imprese artigiane, che magari si trovano in subappalto di subappalto, con una marginalità insignificante. È un fenomeno pericoloso che può avere effetti diretti sulla sicurezza sul lavoro, causando turni orari fuori da ciò che sarebbe normale e far aumentare i rischi. Quindi ci servono lavori piccoli, adatti alle aziende del territorio, e ne abbiamo bisogno in fretta perché già ora vediamo un calo delle commesse in seguito allo scoppio della bolla del Superbonus».
Avrebbe un’idea su dove concentrare le risorse?
«Credo che un intervento forte possa nascere da un investimento su Itea, che ha un numero abominevole di appartamenti vuoti, più di mille, che necessitano ristrutturazioni prima di essere messi a disposizione delle famiglie inserite nella graduatoria per le case popolari. Questo da una parte porterebbe un beneficio sul mercato della casa che vede una dinamica di forte emergenza e dall’altra genererebbe una mole di lavoro importante per le nostre aziende che altrimenti si trovano in difficoltà. È questa la prima proposta che porteremo a Fugatti».
La seconda invece ha a che fare con il costo del lavoro e gli stipendi dei dipendenti?
«Sì, noi abbiamo bisogno che i nostri dipendenti siano pagati bene, che percepiscano uno stipendio equo in modo che possano affrontare la vita in maniera decorosa. Però frenare l’impatto dell’inflazione sullo stipendio dei dipendenti non è il compito del datore di lavoro, ma della politica che deve valutare come agire sul cuneo fiscale. Bisogna che la politica sviluppi un piano di welfare che permetta a noi imprenditori di pagare i nostri dipendenti quanto meritano senza esagerati sovraccarichi di pensione. Voglio che sia chiara una cosa: le nostre sono imprese piccole, i nostri dipendenti sono un’estensione della nostra famiglia, siamo noi i primi che vogliono premiare il loro lavoro, ma vogliamo farlo ad un costo equo e sostenibile».
Ridurre le dimensioni degli appalti è una richiesta anche per le grandi opere o quelle hanno un’altra direttrice?
«Il mondo dell’artigianato deve crescere da un punto di vista qualitativo, deve imparare a fare rete e imparare a instaurare una maggiore capacità di collaborazione tra le varie aziende del territorio in modo da avvicinarsi a opere anche più grandi. Logico però che, quando si tratta di lavori enormi, lì possa subentrare altro tipo di azienda, non è il piccolo artigiano che può costruire l’ospedale. Bisogna fare in modo però che il lavoro intermedio venga suddiviso tra impiantisti idraulici, elettricisti e artigiani di finitura trentini».
Qual è l’ordine di grandezza degli appalti a misura dell’artigianato trentino?
«Dipende perché noi rappresentiamo più di 40 mestieri differenti e ognuno ha la sua dinamica. Diciamo che in generale, per esempio nell’edilizia che conta il 60% delle nostre imprese contando anche l’indotto, un lavoro da qualche milione di euro è gestibile. Per altri mestieri magari questa scala va ridotta qualche centinaio di migliaia di euro».
La carenza di manodopera è un problema anche per gli artigiani?
«Assolutamente, il nostro settore è pesantemente azzoppato dalla difficoltà a reperire manodopera specializzata, un fenomeno che si aggraverà ulteriormente a causa del calo demografico. Subiamo anche la concorrenza di altri settori dove, a parità salariale, viene magari offerta una maggiore flessibilità oraria. Per questo in primo luogo stiamo cercando, anche con il supporto delle istituzioni, di costruire un percorso per avvicinare i giovani al mondo degli istituti professionali, che sono la fucina di nuovi artigiani e lavoratori. Stiamo cercando di raggiungere anche le famiglie per comunicare l’importanza del nostro ruolo e della nostra professione. Di quanto sia un settore capace di adattarsi alle difficoltà e superarle. Penso all’intelligenza artificiale che minaccia tante professioni e che per noi invece diventa valido alleato ma che, come la rivoluzione digitale, non potrà mai soppiantare il ruolo dell’artigiano, solo supportarlo nel lavoro di progettazione e attuazione del lavoro. Vogliamo proporre un cambio di mentalità, presentare le tante opportunità offerte dal mondo dell’artigianato».
Serve anche manodopera dall’estero? In questo il decreto flussi non funziona?
«Il decreto flussi chiede che i lavoratori siano trovati e messi sotto contratto già nel paese di origine. Per le dimensioni delle nostre imprese questo è un onere difficile da assolvere. Per questo il sogno, il progetto a lungo termine, che stiamo portando avanti con le altre categorie economiche, che hanno tutte lo stesso problema, e con la Provincia è quello di costruire un ente capace di andare all’estero formare i lavoratori sul posto e poi portarli sul territorio. Il decreto flussi per noi ora come ora è insostenibile, la piccola azienda non può occuparsi del reclutamento all’estero. Dobbiamo creare un contenitore di soggetti formati destinati alle nostre imprese».
Tornando ai dati economici quale settore artigiano è più in sofferenza?
«Sicuramente l’edilizia, che con l’indotto rappresenta il 60% delle aziende associate. Voglio essere trasparente: l’artigianato edile artigianato ha avuto momento positivo negli ultimi anni, ma tutto questo ha generato le problematiche che ora vengono al pettine. Chi si occupa di finiture, come cappotti o serramenti, sono quelli che soffrono di più sulla totalità dei 40 mestieri. Credo che la politica, nazionale e provinciale, debba mettere in campo strumenti e incentivi importanti per dare slancio all’edilizia anche per dare slancio a quelli che saranno gli obiettivi della Direttiva Casa europea che chiederanno un aumento significativo nella classe energetica delle case. I parametri della direttiva ormai li abbiamo capiti, è inutile aspettare, meglio prendersi per tempo così da raggiungere gli obiettivi comunitari».
Parlando di incentivi, che lezione possiamo imparare dal Superbonus?
«Credo che ci sia una tendenza tutta italiana di costruire polemiche a prescindere dalla validità di uno strumento. Mi spiego meglio: si parla oggi dell’impatto dei crediti fiscali d’imposta sull’economia italiana, ma si riconduce tutto questo al Superbonus, ignorando che molti di essi provengono invece dal bonus ristrutturazione, dal bonus energetico e dal piano facciate. La verità è che siamo usciti dal Covid con l’economia completamente bloccata e serviva uno shock positivo per riattivarla e questo il Superbonus lo ha fatto. Certo andava corretto, per esempio bastava un meccanismo di cessione di crediti senza interessi, già tutto questo avrebbe generato una mole di lavoro significativa, ma non così gravosa da mandare poi in crisi il reperimento di materie prime, la realizzazione delle opere stesse e la nascita di aziende ora già chiuse. E poi è mancato un ragionamento su come e a chi destinare i fondi su due aspetti. Innanzitutto andava data priorità sul tipo di edifici, favorendo le case e i condomini più vecchi e invece tanti interventi sono stati fatti su immobili che non ne avevano grande bisogno. Poi andava data priorità in base ai redditi, permettendo di accedere alla misura in via prioritaria a chi aveva meno potere di spesa. Detto questo però, il Superbonus ha generato tanto lavoro, ha fatto girare l’economia e dato gettito fiscale per lo Stato. Tutto ciò va incluso nel bilancio finale».
Quindi ora a che tipo di incentivi pensa?
«Penso a interventi che abbattano i tassi di interesse o a incentivi economici mirati per determinate categorie: giovani, giovani coppie e anziani. Persone che magari hanno bisogno di riqualificare un vecchio immobile. Potrebbe essere una buona idea anche reintrodurre il contributo sull’acquisto della prima casa che la Provincia aveva introdotto 10 o 15 anni fa».
Passiamo alla sicurezza sul lavoro, un tema che, ha detto subito, le sta molto a cuore.
«La sicurezza sul lavoro per me deve essere uno stile di vita, che va alimentato 24 ore su 24, non solo durante le 8 ore in cantiere o in ufficio. La sicurezza sul lavoro comincia con le giuste ore di sonno, continua con una corretta alimentazione e arriva poi in ambito lavorativo. Voglio partire da due dati nella valutazione della situazione, perché abbiamo analizzato i numeri degli ultimi 20 anni e abbiamo visto come il grafico sugli incidenti si stia appiattendo. Mi spiego meglio: c’è stato un calo sensibile degli infortuni sul lavoro nel mondo artigiano trentino fino a 10 anni fa, poi negli ultimi 10 anni si contano più o meno 700 incidenti l’anno e non riusciamo ad abbattere questa barriera».
Perché?
«Dalla nostra analisi, che vogliamo approfondire ulteriormente, risulta che il calo è stato generato da un insieme di cose: l’introduzione di strumenti di protezione sul lavoro, dai corsi di formazione e dalle prescrizioni sui corretti comportamenti sul posto di lavoro sia esso cantiere o altro. Queste sono ora condizioni indispensabili di partenza in tutte le nostre professioni. Un datore di lavoro che non fa questo non è un datore di lavoro, come quello di Latina. Però una volta che il datore di lavoro ha fatto tutto questo bisogna anche considerare altro».
Cioè?
«Dobbiamo guardare al comportamento dei dipendenti che purtroppo a volte sono disattenti. Non è un caso che la maggior parte degli incidenti capitino il lunedì o il venerdì. Il nemico numero uno oggi nel nostro lavoro si chiama distrazione, rappresenta un elemento di pericolosità enorme. In tutto questo i cellulari non fanno che alimentare questo. Negli incidenti su strada, in itinere o sul lavoro, la maggior parte delle volte la causa è proprio il cellulare, è raro che sia dovuto alle condizioni del mezzo in dotazione. La stessa cosa succede sul posto di lavoro, sono molti, troppi, i casi in cui il telefonino è fonte fatale di distrazione. Chat di gruppo, social, telefonate, sono tante le fonti non necessarie di distrazione che rischiano di avere gravi conseguenze. Serve un cambio culturale, faccio un esempio».
Prego.
«Come abbiamo vietato l’alcol alla guida lo abbiamo vietato sul posto di lavoro. Abbiamo vietato il cellulare al volante e non abbiamo fatto la stessa cosa a lavoro.
Quindi vuole vietare i cellulari?
«No, non credo sia quella la soluzione. Voglio costruire una cultura della sicurezza diversa, per cui il dipendente, ma anche il datore di lavoro, che riceve una telefonata invece di rispondere mentre sta maneggiando attrezzi pericolosi, prima si mette in sicurezza e poi risponde alla chiamata. Il lavoratore deve capire quanto sia lui stesso al centro della sua sicurezza. Per questo stiamo immaginando una campagna informativa per evidenziare i problemi e i rischi legati alla distrazione. Deve cambiare la mentalità, non basta mettere regole. Voglio che sia chiara una cosa: non è un tema di redditività, non ci preoccupa il tempo perso, ci preoccupa che un lavoratore si faccia male. Noi non vogliamo l’operaio che lavora 15 ore al giorno, vogliamo un lavoro pagato il giusto, fatto in maniera sicura, per le ore da contratto il tutto in uno stile di vita sicuro. Per noi l’incidente di un dipendente è una tragedia, perché tocca una persona che fa parte della nostra famiglia».