L'esperto

sabato 19 Ottobre, 2024

Del Pero, lo storico trentino che insegna all’Università di Parigi: «Stati Uniti inefficaci nel Medio Oriente. Iran? Sopravvalutato»

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L'analisi del professore: «Amministrazione Biden sistematicamente umiliata. Elezioni americane, Trump in lieve vantaggio. Decisivi sette Stati»

Un abisso di morte e violenza a cui la parola fine non è data e che non lascia intravedere scenari di nessun genere. Perché l’ansia di vendetta di Israele non è compiuta (l’ultimo ad essere colpito è stato il leader di Hamas, Sinwar), perché l’amministrazione americana sembra assai poco persuasiva, perché l’Onu è ostaggio dei veti incrociati che rendono il palazzo di vetro ingovernabile. Mario Del Pero, professore di Storia internazionale a Sciences Po (Parigi), prova a immergere la sua analisi nel magma indecifrabile del presente con uno sguardo alle prossime tre settimane quando gli Stati Uniti eleggeranno il o la nuovo/a presidente. «Un passaggio che rivela tutte le fatiche della democrazia americana e le tante linee di frattura che si sono aperte dove una parte della società non riconosce più l’altra» osserva lo storico che all’America ha dedicato anche alcuni libri («Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016»/Laterza o «Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump»/Feltrinelli).
Professor Del Pero, l’escalation in Medio Oriente e lo spostamento del conflitto sull’asse diretto Israele-Iran apre scenari ancora più incerti per un assetto mondiale già precario. Quale sarà il punto di caduta finale?
«È impossibile prevederlo, l’estensione del conflitto a Libano e Iran chiaramente lascia presagire rischi elevati. Il governo israeliano sembra avere un interesse politico a promuovere questa escalation, non capiamo fino in fondo quale disegno strategico ci sia dietro. La risposta a Gaza e la tragedia umanitaria che ne è seguita paiono derivare anche da un’ansia di vendetta per la mostruosità del 7 ottobre provocata da Hamas. Forse è più comprensibile l’azione contro Hezbollah e l’Iran finalizzata a ripristinare la credibilità del deterrente israeliano e a mostrare una potenza superiore che inibisce la capacità e la volontà di azione della controparte. Però è difficile capire come si può uscire da questa spirale. Risuonano gli echi della guerra in Iraq del 2002/03, l’idea di una guerra trasformativa, e sono assonanze che spaventano per chi ha memoria».
Come giudica l’amministrazione Biden in questo conflitto?
«Sullo specifico del dossier israelo-palestinese la giudico molto negativamente. L’amministrazione Biden ha dato una dimostrazione di inefficacia e di debolezza. Aveva degli obiettivi, tra cui evitare un’escalation nel nome del quale aveva avviato un dialogo con Iran, che non sono stati raggiunti. Si è fatta sistematicamente umiliare da Netanyahu. Abbiamo smesso di contare i viaggi che il segretario di Stato Blinken ha compiuto in Medio Oriente per cercare una qualche mediazione. I “cessate il fuoco” temporanei negoziati sono stati sistematicamente disattesi. Credo che poche cose simboleggino meglio questa inefficacia del molo galleggiante che gli Usa cercarono di creare a Gaza per facilitare gli aiuti umanitari: un molo costato tantissimo e alla fine smantellato per la sua inefficacia. È il simbolo del fiasco statunitense».
Il conflitto ha anche rivelato la debolezza dell’Asse della Resistenza (Iran, Hezbollah, Hamas, Houthi, Siria, milizie irachene) e anche dell’Islam politico: è la fine di un’epoca e l’apertura di una nuova storia?
«Da storico credo che le pagine non terminino mai. Si girano, si ripensano, si indirizzano su altri percorsi. La storia è accidentata, mai lineare e non si ripete. Non credo che l’Islam politico sia destinato ad una fine, ha avute molteplici declinazioni – alcune terribilmente radicali come Isis – e il rischio che la destabilizzazione riaccenda quel tipo di estremismo in Medio Oriente è molto elevata. Dopodiché il conflitto ci mostra uno scarto di potenza tra Israele e i Paesi vicini che è soprattutto di matrice tecnologica. Israele grazie allo scudo di difesa si protegge molto bene rispetto anche a missili a medio raggio. Lavora di concerto con gli Stati Uniti, l’unica vera grande superpotenza militare globale esistente oggi. L’Iran ha mostrato una grande impotenza. La parabola di Saddam Hussein e dell’Iraq torna ancora utile: credo che in questi anni abbiamo sopravvalutato le capacità militari dell’Iran e delle sue appendici».
Il conflitto mediorientale e l’invasione russa in Ucraina hanno fibrillato due aree strategiche dove si affaccia l’Europa e contribuito a rimescolare le carte delle alleanze internazionali. Quali sono gli effetti più evidenti e come si potranno ricomporre questi conflitti, e di conseguenza il mondo?
«L’effetto più evidente che tendiamo a rimuovere è la morte di decine, centinaia di migliaia di persone. La guerra in Ucraina sta compiendo una strage di ragazzi, su entrambi i fronti, che hanno l’età dei miei studenti. Le cifre sono tenute rigorosamente nascoste per non deprimere i due eserciti e la coesione dei Paesi. Un mio collega è stato in Ucraina per deporre un fiore sulla tomba di un suo studente e mi ha parlato di una distesa di campi di croci e di giovani uccisi. Gaza lascia senza fiato. Noi come università di Sciences Po abbiamo costruito un progetto con alcune delle università di Gaza per offrire borse di studio e consentire agli studenti di venire a studiare qui perché tutti gli atenei e le scuole sono state distrutte. Questo primo aspetto lo dobbiamo rimarcare anche per combattere la deumanizzazione che porta con sé il conflitto. Se poi guardiamo al contesto internazionale osserviamo un mondo che si frammenta, che crea nuovi sistemi di alleanze, nuovi partenariati – come la Russia e l’Iran che si sostengono a vicenda -, la Cina che si muove come battitrice libera. Il che dimostra anche l’obsolescenza di un sistema di governance del mondo che si basa su norme e istituzioni in parte datate e in parte screditate. Un esempio su tutti: abbiamo un Consiglio di sicurezza dell’Onu in cui 5 Paesi hanno il privilegio del diritto di veto. Negli ultimi dieci anni Usa, Russia e Cina hanno fatto ampiamente ricorso a questo strumento».
La globalizzazione – che ha radici lontane – secondo alcuni analisti sta oggi lasciando il posto ad un processo opposto di «deglobalizzazione». Un po’ perché il disegno americano e occidentale di un modello politico-economico unico è fallito, un po’ perché la Cina ha sottratto quote di mercato nell’industria, nel commercio, nell’alta tecnologia, depauperando o facendo concorrenza all’Occidente che è costretto a ripensarsi. Qui attecchiscono anche i movimenti sovranisti. Condivide questa analisi?
«Credo che oggi assistiamo ad un rallentamento significativo dei processi di globalizzazione e penso, lo dico da storico, che un passaggio nodale sia stata la grande crisi del 2008. Ha screditato una narrazione benevola della globalizzazione che faceva vincere tutti (dai consumatori americani ai poveri cinesi). Invece, come in tutte le grandi trasformazioni epocali, ci sono stati vincitori e vinti. Tra i vinti vanno considerati pezzi rilevanti delle società democratiche avanzate, europee e statunitensi, che hanno imputato alle stesse democrazie di non averli protetti e difesi. Ne è seguita una reazione che ha avuto anche una connotazione estrema. Trump e il trumpismo non si spiegherebbero diversamente. C’è una richiesta crescente di protezione, di chiusura, di recuperare margini di azione. Il sovranismo è questo. Dopodiché lo spazio politico nazionale è sempre più fragile e questa è la grande contraddizione. L’interdipendenza lo limita, e limita lo spazio d’azione della politica. Il consumatore americano dipende dalle merci cinesi, l’esportatore cinese dal mercato americano, e così via. L’interdipendenza è una forma di dipendenza, e già essere dipendenti è una limitazione della sovranità e della libertà. Ed è una forma di dipendenza dall’altro, dallo straniero. Questo alimenta paure. Gli Stati Uniti hanno provato a limitare la dipendenza dalla Cina, sia con l’amministrazione Trump che con quella Biden, ma è aumentata quella con Messico, Vietnam e altri Paesi».
Il 5 novembre si voterà per le presidenziali americane. Un voto che ha ovviamente un rimbalzo interno ed esterno, anche rispetto ai conflitti in atto. Sembra molto incerto, un pronostico: Trump o Harris?
«Gli storici immaginano e prevedono il passato, non il futuro. Credo che Trump rimanga leggermente favorito anche se è un testa a testa il cui esito si giocherà in sette Stati con questo bislacco e anacronistico sistema elettorale dove il Wyoming (570mila abitanti) elegge due senatori come la California che ne ha 40 milioni. I problemi della rappresentanza nascono anche da lì. È un’elezione che rivela fatiche e sofferenza della democrazia americana, in difficoltà e in crisi, aspramente polarizzata in cui una parte della società non riconosce più l’altra come avversario politico ma lo percepisce come un nemico esistenziale. Quindi diventa tutto lecito, anche assaltare il Congresso. È una polarizzazione che mostra delle linee di frattura che negli Stati Uniti sono più marcate rispetto ad altre democrazie occidentali. Non sono divari di reddito o occupazionali, sono leggende che la working class vota per Trump. La prima frattura è determinata dalla densità abitativa, nelle città si affermano i Democratici e fuori i Repubblicani. E l’altra sono i livelli di istruzione: il voto bianco, maschile, senza titolo di studio post-secondario che votano sempre di più repubblicano quando una volta erano un segmento essenziale del Partito democratico».