La questione
domenica 27 Agosto, 2023
di Davide Orsato
Dal Trentino il dibattito si sta diffondendo tra gli esperti di tutta Italia. Psichiatri, operatori di dipartimenti «a rischio» come i servizi delle dipendenze, medici che lavorano con queste realtà e infermieri. La lettera dei 92 operatori dell’Apss è girata di chat in chat ed è stata letta da centinaia di professionisti. I dubbi, le considerazioni circolate all’indomani dell’assassinio di Iris Setti vanno al di là del caso di cronaca, di per sé sconvolgente e sollevano una coltre su quella che era già una «questione aperta» all’interno della professione psichiatrica ma che non aveva raggiunto l’opinione pubblica. «Qual è il compito di chi si occupa di salute mentale? Qual è il parametro d’azione?». I 92 firmatari trentini lo dicevano chiaro e tondo: «Curare. Non siamo i responsabili della sicurezza pubblica». Una presa di posizione che è stata apprezzata anche dalla Società italiana di psichiatria. «La condividiamo nei principi fondamentali – spiega Emi Bondi, presidente della Sip e direttrice dell’unità di psichiatria I dell’ospedale di Bergamo – non si può chiedere a una disciplina medica di agire come controllore della società. C’è un limite d’azione per la scienza. E c’è un ruolo preciso di chi fa le leggi». Il richiamo è verso un tema che è già stato affrontato all’indomani del caso Setti, dal vicepresidente della Sip, Massimo Clerici, in un’intervista al «T»: il trattamento dei pazienti psichiatrici e dipendenti da sostanze. Per l’appunto il caso di Chukwuka Nweke, l’aggressore (e assassino). «In quel caso prendere in considerazione un ricovero coatto non dovrebbe essere un tabù», aveva sostenuto Clerici. «Una posizione — spiega ora — che ha generato una serie di reazioni. E non escludo che la lettera sia figlia anche di queste dichiarazioni. Il tema resta aperto, perché c’è una forte correlazione statistica tra gesti violenti e l’assunzione di sostanze nel caso di soggetti con patologie mentali. Ma sono convinto che il la lettera degli operatori trentini centri il punto: non si può demandare il controllo sociale agli psichiatri, non è il nostro compito e non sarebbe giusto nemmeno dal punto di vista dell’approccio medico – paziente. Quanto alle modalità d’intervento, deve decidere il legislatore, non certo chi è chiamato a curare». Insomma, il dibattito resta. E, oltre a un aspetto pratico, tocca anche un fondamento teorico e filosofico: il libero arbitrio, la volontà di «scegliere il male» e di «farsi del male», come nel caso dell’abuso di sostanze. Insomma, se tutti concordano che non basta un Tso, la discussione su come debba funzionare la psichiatria di comunità andrà avanti ancora per un bel po’.