Medicina
lunedì 7 Novembre, 2022
di Alberto Folgheraiter
Una saggezza antica. «Non sono ancora riuscito a convincere i Grandi che, invece di partire dall’alto, dai padreterni, è più semplice partire dal basso, dal Bambino. Chiedi ai bambini che tipo di mondo vorrebbero… Non sono parole mie: nel 2002, in una sessione speciale dell’Onu sui diritti del bambino tutti gli Stati sottoscrissero: “Il mondo deve essere a misura di bambino”. Parole che mi hanno entusiasmato: tutti gli Stati riconoscevano che il Bambino è l’unità di misura del mondo». Dino Pedrotti, decano della pediatria trentina, il medico che, per quarant’anni ha lottato e vinto la battaglia per la sopravvivenza dei neonati da «mezzo chilo», sarà premiato dalla città di Trento con il massimo riconoscimento. Martedì 8 novembre l’aquila di San Venceslao vola sul camice del medico della cicogna «frettolosa».
Si può dire che lei ha visto la maggior parte di coloro che, in provincia di Trento, sono nati dopo gli anni Settanta?
«Quelli che sono dovuti passare per l’ospedale infantile, tutti. Ecco, sono andato in crisi nel 1971 quando ho realizzato che al cimitero di Trento, l’anno prima, erano stati sepolti una settantina di neonati. Li conoscevo uno per uno, di ognuno rammentavo il nome e la storia (breve) che li aveva portati alla tomba».
Perché morivano tutti questi bambini?
«Era nata da poco la neonatologia e nel mondo si raccomandava l’assistenza fin dalla sala parto. Fino agli anni Settanta, il bambino nasceva e magari non respirava. Arrivava la telefonata dagli ostetrici del Santa Chiara: “Dotor, ghè chi en pòpo che no respira”. Risposta: “Tra mezz’ora arriviamo”. Perché noi eravamo a più di due chilometri di distanza».
E nel frattempo il bambino moriva o restava in anossia e quindi disabile a vita.
«Fino al 1973 non c’erano incubatrici da trasporto. I neonati li mettevamo in una valigetta nella quale era stata praticata un’apertura per far passare il tubicino dell’ossigeno. Ci si metteva anche una boule con l’acqua calda… Il primo problema era la distanza. Nascevano bambini a Levico, ad Ala…; insomma nel Trentino di allora c’erano quattordici punti nascita. Metà siamo riusciti a farli chiudere, gli altri… Quando si trattò di chiudere Mezzolombardo fui costretto a usare toni forti. Andai dal sindaco e gli dissi senza giri di parole: “Caro sindaco, domani vado a denunciare il fatto, perché in un anno sono morti 3 bambini su 150». Risposta del sindaco: “Solo tre”?»
Oltre alla distanza c’era anche il problema dell’ospedale di Trento. Quanti bambini nascevano al Santa Chiara?
«Nel 1973 ho scritto ai 14 pediatri dei vari ospedali della provincia, chiedendo loro una relazione su nati, morti, patologie e altro. Da questa fotografia della situazione era emerso che solo il 40% dei bambini gravi (sotto i due chili di peso o con patologie) nasceva al Santa Chiara. Ma il 60% nasceva in periferia».
E qui c’era il problema di togliere il bambino appena nato alla mamma, magari ricoverata in un ospedale periferico…
«C’era da tenere presente anche il lato umano, autentici drammi familiari. Tutte le mamme erano separate dai figli. Era drammatico vederle piangere ai vetri del reparto. Nel 1972, da eretici, contro le regole, aprimmo le porte alle mamme. Nei primi giorni dopo il parto le mamme erano però ricoverate e ovviamente in angoscia: a loro inviavamo una fotografia Polaroid del figlio. Tante mamme la conservano ancora».
Quando decise di far trasferire l’Ospedalino trovò il consenso unanime?
«Per l’amor di Dio! Mi trovai contro la politica, il clero, la stampa».
Non ci fu nessuno che le diede una mano in questa battaglia?
«Oh, sì. Le infermiere, che curavano i neonati. Se all’Ospedalino abbiamo salvato tanti bambini, il merito va condiviso con una trentina di infermiere che non solo curavano i neonati col massimo impegno, ma andavano anche a prenderli con l’autolettiga della Croce Rossa nei quattordici punti nascita della provincia e, a rotta di collo, li trasferivano all’Ospedalino. Più di 8 mila viaggi».
L'INTERVISTA
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Il professore emerito del dipartimento di Sociologia commenta i dati Ocse: «La cultura scolastica è sconnessa dalla realtà economica, sociale e culturale. Non si crea l’abitudine a leggere e informarsi»