L'intervista
domenica 22 Settembre, 2024
di Alberto Folgheraiter
Si è laureato in farmacia a Padova, poi è partito per il servizio militare (dodici mesi di naja da soldato semplice nella sanità militare a Treviso. Avrebbe potuto fare il corso ufficiali ma aveva già deciso di farsi prete. Bruno Tomasi (1959), ha detto la prima messa a 32 anni. Poi è partito per Roma dove ha frequentato la Gregoriana (l’università dei gesuiti, la cosiddetta «fabbrica dei vescovi») e si è laureato pure in Teologia morale. Insomma, il candidato ideale per fare carriera in Vaticano ma la storia personale ha deciso altrimenti: per 8 anni rettore dell’Arcivescovile a Trento, professore universitario a Bolzano, Bressanone e Verona. Da cinque anni è parroco di ben 12 parrocchie della val di Cembra. Un tiro di schioppo da Lavis, sua patria. Un altro mondo rispetto alla città. Un osservatorio «privilegiato» (?) per leggere la crisi delle vocazioni religiose e la secolarizzazione che non risparmia nemmeno la periferia.
Lei è quella che nel clero si chiama «vocazione adulta». Perché ha deciso di farsi prete?
«Quando frequentavo il liceo, al mio paese (Lavis) era parroco don Olivo Rocchetti il quale aveva aggregato un bel gruppo giovanile. All’interno di quel gruppo si era insinuato anche un percorso vocazionale».
Lei aveva anche uno zio prete (Alberto Tomasi, parroco a Borgo Valsugana).
«Avevo dei punti di riferimento ai quali avevo manifestato un qualche interesse nel merito. Con molta intelligenza, don Olivo mi disse: intanto vedi di laureati, farti una posizione. Se poi sarai ancora dell’idea di farti prete potrai fare una scelta matura».
Dopo la laurea due anni da farmacista, la naja nell’artiglieria da campagna come soldato semplice… Correva il 1984.
«Io ero nell’infermeria ed è stata una bella esperienza umana e professionale. Un anno di servizio militare con esperienze che segnano. Ho potuto mettere le mani in tante miserie umane e spirituali. Abbiamo avuto anche diversi suicidi».
I suoi compagni di naja come la guardavano?
«È rimasta una bella amicizia perché, dopo che sono diventato prete, alcuni di loro mi hanno chiamato a benedire il loro matrimonio e a battezzare i loro figli».
Con due certificati di laurea in tasca, un curriculum di docente universitario di rilievo, poi al momento di andare in pensione (ammesso che i preti vadano in pensione) l’incarico di parroco di 12 parrocchie della val di Cembra. Un doppio salto carpiato.
«Per molti aspetti è stata una sorpresa anche per me. Perché l’esperienza pastorale è fondamentale per chi sceglie di diventare prete. Considero un grande privilegio aver potuto studiare, aver potuto insegnare, e oggi poter coniugare questa esperienza nella vita pastorale in val di Cembra».
Dove, lo abbiamo toccato con mano, è molto amato e benvoluto. Ma che fatica…
«Qui mi trovo benissimo. È vero. Anche molto affaticato ma ripagato dalla soddisfazione di trovare ogni giorno qualcosa di buono, di interessante, qualcosa che mi completa».
Fino a cinquant’anni fa, nelle comunità rurali il prete era qualcuno. Oggi chi è il prete?
«Certamente non è quello di qualche decennio fa. Anche perché da alcune generazioni, anche nelle nostre valli, conoscono la lontananza dalle dimensioni della fede».
Solo cristiani d’anagrafe.
«E anche di tradizione, ma è una tradizione che si è ormai svuotata. Qui si aprirebbe il tema della possibilità di una fede atea. Farisei, quella che conosce Gesù e che continua a essere attuale».
Tuttavia…
«Allo stesso tempo la trovo una presenza bella e significativa per un esiguo numero di persone che sanno apprezzare la presenza del prete non tanto da un punto di vista sociale quanto spirituale: la possibilità di garantire la messa la domenica, i sacramenti. Una presenza nei momenti forti della vita, dal battesimo al funerale».
Si passa ancora per il matrimonio davanti al prete?
«Dilaga certo il matrimonio con rito civile ma quest’anno, in val di Cembra, abbiamo avuto già 15 matrimoni con rito religioso. Peraltro, credo che il prete oggi debba liberarsi di certi cliché che sono stati insegnati in Seminario e che valevano fino a quel tempo. Ma oggi c’è bisogno di una revisione radicale».
Il fatto di essere diventato prete a 32 anni, quella che si dice una vocazione adulta, senza aver subito l’indottrinamento in seminario dall’età di dieci anni le consente maggiore libertà di giudizio. Hanno ancora senso le «fabbriche dei preti»?
«Non c’è dubbio che la figura del seminario tradizionale è ormai superata. Lo dicono anche molti vescovi. Ma tutto questo si scontra con l’incapacità di dare una svolta decisa alla preparazione del clero, non avendo paura di consentire ai candidati alla tonaca di essere a contatto e a confronto con le realtà di una società secolarizzata».
Ha suscitato stupore (e tra i benpensanti perfino scandalo) la decisione del parroco di Civezzano e di altre parrocchie, Angelo Gonzo, di delegare ai laici la conduzione di riti quali il funerale o altri dove la presenza del prete non è indispensabile.
«Ascolto con molto interesse queste sollecitazioni. Padre Angelo viene da una ricca esperienza di missione, in Bolivia. Lui parla come figlio di quella sua esperienza, che non è quella del Trentino. Ciò non toglie che queste sollecitazioni non debbano essere prese in considerazione».
Il prete che ha sulle spalle parrocchie plurime dovrà giocoforza delegare o disertare molti impegni.
«Un cambiamento dovrà essere fatto. Noi amministriamo battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni: il 95% delle persone che ricevono questi sacramenti, in val di Cembra, non li incontro mai più».
Già, c’era quel vescovo che di fronte a chi lamentava l’invasione dei piccioni in piazza Duomo, aveva detto chiaro e tondo: portatemeli che li cresimo. Dopo spariranno per sempre.
«È un dato di fatto, ma allo stesso tempo un seme rimane. Non dimentichiamo che ci sono tante realtà fatte di bene che, lette con le parole di Gesù, non sono antagoniste a quella che è stata una tradizione cristiana».
di Tommaso Di Giannantonio
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