Comunità
martedì 8 Novembre, 2022
di Alberto Folgheraiter
Il sindaco di Pinzolo, Michele Cereghini (1974), ricorda che quando Ivan Maffeis disse la prima messa (3 luglio 1988) lui faceva il chierichetto. Domenica ha proposto, e il consiglio comunale in seduta straordinaria ha approvato all’unanimità, la nomina dell’arcivescovo Ivan Maffeis a «cittadino onorario» di Pinzolo. Da quando è diventato vescovo di Perugia, infatti, Maffeis ha dovuto trasferire la residenza nella città umbra. Poche ore prima di tornare, per un giorno, a Pinzolo, ha ricevuto la nuova carta di identità dal comune di Perugia.
Domenica la popolazione dell’alta val Rendena ha fatto festa all’enfant du pays, partito da casa a dieci anni per diventare prete e a 59 anni, che compirà il 18 novembre prossimo, tornato a Pinzolo per condividere con i suoi compaesani la promozione ad arcivescovo metropolita delle quattro diocesi dell’Umbria.
Prima del rito solenne, accompagnato dalla banda sociale e da cinque cori, l’arcivescovo Ivan aveva fatto visita al cimitero alla tomba dei genitori e del fratello Marco, morto nel mese di novembre del 2009. Le campane della parrocchiale di San Lorenzo annunciavano il pontificale delle 10.
Il vecchio cronista che gli aveva annunciato «solo un saluto veloce, niente interviste» non ha mantenuto la promessa. Capita ai peccatori incalliti. Chissà se l’arcivescovo di Perugia lo assolverà.
Che effetto le fa essere vescovo? È stata una nomina inattesa?
«Quando ero a Roma l’ipotesi poteva anche essere nell’aria (il predecessore di Ivan Maffeis alla Cei, Domenico Pompili, era stato nominato vescovo di Terni e oggi è vescovo di Verona, ndr). Il fatto di aver insistito per tornare in parrocchia, per me era una scelta di vita. Avrei voluto fare il parroco in una piccola comunità. L’arcivescovo Tisi ha deciso diversamente e mi ha mandato a Rovereto. Dopo dieci anni di servizio a Roma avrei voluto ricominciare in periferia, anche perché erano ormai molti anni che non facevo il parroco, se non una piccola presenza a Sant’Antonio di Mavignola, limitata ai fine settimana».
Chi ha insistito perché lei accettasse la nomina a capo di una diocesi?
«Nel mese di marzo dello scorso anno c’è stata una prima proposta che ho pregato di ritirare perché eravamo in piena pandemia. Non mi pareva giusto lasciare, dopo appena sei mesi, la comunità di Rovereto e le altre parrocchie che mi erano state affidate. Mi pareva davvero di tradire la gente in un momento di grande dolore e preoccupazione. Sembrava che abbandonassi la mia comunità nel momento del pericolo e di massima difficoltà. L’anno scorso ho detto ‘no’ ed è stato accettato dal papa».
Mesi fa le era stato nuovamente chiesto di tornare a Roma ed anche in quel caso, si disse in Vaticano, lei aveva rifiutato.
«Alla terza richiesta, direttamente da papa Francesco, non ho potuto tirarmi indietro. Non potevo fare il prezioso anche perché il nostro è un servizio alla Chiesa universale».
La scelta del papa di mandarla a Perugia, dove il suo predecessore era cardinale, è stata interpretata come un riconoscimento per i dieci anni di impegno che lei ha svolto alla Cei quale responsabile della comunicazione prima, segretario della Conferenza episcopale italiana poi.
«È certo un grande gesto di fiducia da parte di papa Francesco. Che lo ha deciso e rispetto al quale io posso solo essere grato. Venti giorni fa ho visto il papa ad Assisi e, nonostante fosse in carrozzina, ha voluto abbracciarmi. È stato davvero un grande gesto».
Il ritorno a Pinzolo vestito da vescovo pare il lieto fine di una fiaba dei fratelli Grimm. Figlio di povera gente, entrato in seminario da adolescente, divenuto prete, giornalista…fino ad arcivescovo. Che emozione prova?
«Il ritorno a Pinzolo, oggi, è un dovere di riconoscenza e di gratitudine nei confronti di questo paese, di questa comunità dell’alta valle di Rendena che mi ha sempre voluto bene. Gratuitamente. Io, qui, ho fatto ben poco. Devo dire che attorno alla figura del prete ho trovato non solo rispetto, il che non è sempre scontato, ma una grande attenzione, una grande accoglienza, una grande disponibilità. Nell’immaginario, il prete costruisce la comunità, la tiene in piedi. Invece, quello che io ho sperimentato in questi anni è esattamente il contrario».
In che senso?
«Tu sei al servizio della comunità è chiaro. Ma è la comunità che tiene in piedi: con le sue attese, con il suo affetto, ti aiuta ad essere prete».
Un grande onore, ad ogni buon conto, per la Val Rendena avere due vescovi nel giro di pochi anni.
«Questo magari è quello che vede la gente. Io penso che sia don Lauro che il sottoscritto più che l’onore avvertono la responsabilità più grande di quello che siamo. E ogni giorno ti rendi conto che se vai avanti è per la grazia di Dio, per la sua Provvidenza, ma anche con l’aiuto dei preti e delle comunità che ti sono affidate».
Il papà, Santo, falegname; il nonno, Cesare, «scarpolìn», cioè ciabattino. Proprio un figlio della terra.
«Un po’ come tutti, figli di una terra di emigrazione e al tempo stesso terra di ritorno. Ciò che sento oggi è davvero un ritorno alle radici. Chi va via sente ancor di più, non tanto una nostalgia sterile, quanto questa terra sappia dare in termini di valori, di riferimenti, di luoghi e di volti che nella memoria di ciascuno restano cari. E questo ritorno mi rammenta Pavese, il quale scriveva che certo vedi il mondo, ma poi torni alle tue origini, alla tua terra. La vita è un soffio e mentre il tempo vola, se ci fermassimo a riflettere, anche in questi anni complicati, ci rendemmo conto che ciò che resta, indelebile come il granito della Val di Genova, sono le cose essenziali: la semplicità, la fraternità e la riconoscenza».
Fra pochi giorni lei compirà 59 anni, essendo nato il 18 novembre 1963. Non ci resta che augurarle lunga vita e, come dicono a Pinzolo, «fa bèl».