L'INTERVISTA
lunedì 12 Agosto, 2024
di Claudia Gelmi
Profonda indagatrice delle sfaccettature dell’anima, delle relazioni — soprattutto familiari, e di queste soprattutto femminili o femminili in rapporto al maschile — e delle comunità che abitano i piccoli e isolati centri delle terre alte d’Italia, Donatella Di Pietrantonio, fresca vincitrice del Premio Strega con «L’età fragile» (Einaudi 2023), sarà ospite della rassegna «Agosto Degasperiano» mercoledì 21 agosto a Castel Ivano alle 18.
La scrittrice è in questi giorni proprio alle prese con la scrittura di un testo inedito che proporrà durante l’incontro: «Sarà un intervento di carattere narrativo — racconta —, sto scrivendo una storia che riporterò al tema della fragilità umana». In un evento realizzato in collaborazione con Arte Sella, Di Pietrantonio parlerà infatti della fragilità che pervade ogni età della vita, dalla nascita alla morte: una dimensione che spesso si tende a dissimulare, ma che, come dimostrano le storie e i personaggi narrati dall’autrice, può diventare invece il ponte tra noi, gli altri e la stessa memoria dei luoghi.
Donatella Di Pietrantonio, innanzitutto, cosa si prova a «essere una Premio Strega» e cosa è cambiato nella sua vita, se è cambiato qualcosa?
«Sicuramente c’è stata una maggiore visibilità per il mio romanzo “L’età fragile”, che già aveva avuto una buona accoglienza da parte di lettrici, lettori e critica, ma che con il Premio Strega sta raggiungendo dei numeri che non mi sarei mai aspettata: è primo nella classifica generale da settimane. Ho provato un po’ di stupore e di gioia, soprattutto stupore nello scoprire come grazie al premio il romanzo sia diventato così noto e così tante persone lo leggano. Mi fa piacere ricevere, dalle lettrici soprattutto, le fotografie delle loro letture sotto l’ombrellone: me ne arrivano tantissime».
Parafrasando il suo romanzo «L’età fragile», l’incontro che la vedrà protagonista a Castel Ivano si intitola «L’umanità fragile». A suo avviso la fragilità è ancora un tabù in questa che, semplificando, potremmo definire la società della performance?
«Non direi proprio un tabù, però certamente tende, come caratteristica dell’umano, a essere un po’ nascosta, negata. Certamente non siamo orgogliosi delle nostre fragilità e non le esponiamo così facilmente. Secondo me si confonde la fragilità con la debolezza».
Caratteristica che invece racchiuderebbe in potenza anche una certa spinta generativa…
«Infatti, per me è così. La fragilità è un ambito da esplorare, conoscere e riconoscere. Soltanto in questo modo può diventare generativa e soltanto prendendola in mano possiamo farne una risorsa».
Ne «L’età fragile» rivendica questa componente umana come connaturata alle persone in ogni loro fase della vita: un comune denominatore che nella narrazione tiene insieme un feroce fatto di cronaca degli anni ‘90 con la recente pandemia, le ferite di una madre e il trauma di una figlia, la memoria di una comunità, la fatica intergenerazionale di trovare le parole per dire le cose. Cosa l’ha ispirata nel costruire questa trama così articolata?
«Forse proprio il confronto fra diverse fragilità generazionali, espresse qui nel confronto tra la fragilità della madre Lucia e quella della figlia Amanda. Sembrano fragilità non comunicanti le loro, ma probabilmente è soltanto mettendole insieme che l’una e l’altra possono trovare la forza per ripartire, ma anche la forza per parlarsi di quello che è stato nella vita della madre e di quello che è, nel presente, nella vita della figlia. Ho voluto poi raccontare anche questo non detto che si riferisce a un vecchio episodio di cronaca (il duplice femminicidio avvenuto sulla Maiella nel 1997, dove due escursioniste furono uccise e un’altra — che compare come uno dei personaggi del libro — sopravvisse, ndr). Questo non detto passa di generazione in generazione fino al presente, attraversando anche il personaggio di Amanda: quello che cerco di dire invece è che non possono esistere i non detti perché creano danni. Pertanto ogni cosa che riguarda famiglie, ma anche luoghi e territori, deve essere oggetto di elaborazione».
A proposito di non detti, il romanzo è ambientato nel tempo della recente pandemia, il cui «dopo», che stiamo tuttora vivendo, è caratterizzato da un enorme non detto in termini di rimozione. Che ruolo ha voluto dare a quel momento storico nella costruzione narrativa?
«La pandemia fa parte della costruzione del romanzo, certamente non è un tema, però è uno sfondo importante, è il contesto in cui si muovono i personaggi e la storia sulla linea del presente. Tutto ciò che accade nel libro su questa linea del tempo che riguarda il presente è influenzato dalla pandemia, dalle limitazioni, dalle chiusure: è tutto uno sfondo che però incombe, incupisce, e la crisi di Amanda, che si chiude in camera, si riverbera appunto su questa chiusura generale che riguarda tutto il paese, anzi tutto il pianeta».
Parlando più in generale dei suoi libri, le figure femminili — e quindi le relazioni tra loro e con il mondo attorno — sono state preponderanti fin dagli esordi. C’è un motivo o un interesse particolare alla base?
«Nei libri precedenti c’è una sovrabbondanza di personaggi femminili e questo è dovuto al fatto che indagavo soprattutto il rapporto madre-figlia. Nell’ultimo in realtà ci sono anche molti personaggi maschili: è una delle novità di questo romanzo. Qui ho fatto un lavoro sul maschile attraverso vari personaggi e varie generazioni, per cui si trova la generazione del maschile patriarcale arcaico che è rappresentato dal padre di Lucia, poi c’è la generazione maschile di oggi rappresentata dal marito di Lucia e padre di Amanda, … Volevo anche raccontare questi uomini che ho conosciuto da bambina, da ragazza, questi contadini, pastori, duri, ruvidi, ma anche molto presenti nella vita dei loro figli. Mi sono, in questo, ispirata alla figura di mio padre».
I suoi romanzi sono altresì profondamente impregnati della terra che le protagoniste e i protagonisti abitano, che è la sua terra, l’Abruzzo. Anche i luoghi diventano letteratura, così come gli accadimenti in quei luoghi, fin dal terremoto del 2009 affrontato in «Bella mia». Che ispirazione trae dalla sua terra e quanto è stata identitaria nella produzione letteraria?
«Per me l’Abruzzo è un personaggio importante che addirittura si prende a volte anche il ruolo di protagonista. Io parlo dell’Abruzzo perché lo conosco molto bene, ci sono nata, cresciuta e ci sono rimasta a vivere, ma rappresenta tutte le terre interne isolate nascoste nella penisola. Quello che mi interessa è la dinamica delle piccole comunità che vivono nelle terre alte, mi interessa scrivere di come si relaziona al suo interno la piccola comunità».
In che misura la scrittura ha fatto parte della sua vita, considerando che ha iniziato a pubblicare in età matura e ha praticato una professione distante dagli ambienti letterari?
«Io ho sempre scritto, fin da bambina, però non ho mai creduto che potesse essere il lavoro della mia vita, quindi mi sono avviata verso una professione più riconoscibile, e anche più comprensibile dalla mia famiglia (ha esercitato la professione di dentista pediatrica, ndr). La scrittura però non mi ha mai abbandonata e a un certo punto — avevo quasi 50 anni — ho deciso di proporre il mio materiale a degli editori e da lì è iniziata la seconda parte della mia vita».
E come è questa seconda parte della sua vita?
«È molto diversa, credo sarà sempre più una vita di scrittura. Mi concederò un tempo meno “rubato” e vorrei provare — per il tempo che mi resta — a coltivare questo giardino in un modo più disteso».
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