L'INTERVISTA
sabato 27 Aprile, 2024
di Sara Alouani
«Il cambiamento è donna perché solo la donna può creare nuove generazioni». Ha concluso così Nasim Eshqi, 42 anni, la sua riflessione sulla situazione attuale dell’Iran, suo paese natale ma nel quale non può più tornare perché in esilio. Unica climber professionista iraniana che pratica l’arrampicata all’aperto e senza hijab è fresca di pubblicazione con il suo «Ero roccia. Ora sono montagna. La mia battaglia per la libertà delle donne in Iran e nel mondo» (edizioni Garzanti, 2024), un inno alla libertà che Eshqi ha presentato in una lunga conversazione a «il T».
Nasim, dal libro traspare come lo sport per lei sia stato un mezzo di emancipazione femminile, dalla kickboxing, passando per l’atletica leggera, fino all’arrampicata. È come se si fosse aggrappata a queste attività per dimostrare che una donna può fare le stesse cose di un uomo, o forse anche di più…
«A dire il vero ho usato lo sport come mezzo per potermi muovere liberamente. Dall’età di sette anni ho dovuto indossare l’hijab e la mia libertà, i miei movimenti erano limitati. Molto più limitati di mio fratello maschio e io odiavo me stessa perché non potevo muovere il mio corpo come volevo. Se questo significava essere donna, allora avrei preferito nascere uomo. Lo sport mi ha parzialmente, dico parzialmente, permesso di togliere il velo perché in Iran tutti i complessi sportivi sono separati per genere; quindi, mi allenavo assieme alle altre ragazze senza hijab. Per la me bambina, all’epoca fu un piccolo passo verso la libertà».
Lei ha persino rinunciato ad una gara di kickboxing internazionale fuori dall’Iran perché non voleva indossare il velo. Ha infranto un suo grande sogno per rimanere fedele ai suoi principi…
«La kickboxing fu il mio primo amore e per nulla al mondo mi sarei coperta per praticare lo sport che tanto amavo piegandomi al volere del regime islamico. Sarebbe stato come vendere la mia anima all’Iran radicale. Mai sarei stata, attraverso lo sport, lo sponsor di una religione che odiavo. Gareggiare con il velo per me avrebbe significato dire a tutti: “Guardate qui. L’hijab è una parte di me e lo accetto come marchio”».
Poi, invece, ha trovato un modo per pubblicizzare la sua posizione antislamica attraverso il climbing, usandolo, come afferma nel suo libro, come strumento per «arrampicare verso la libertà».
«Ho iniziato ad arrampicare perché volevo essere me stessa e non per pubblicizzare qualche ideologia. Ho sempre dovuto censurarmi nella società, davanti a tutti, indossando l’hijab. L’arrampicata, invece, era un’attività che mi permetteva di non mettere il velo perché la svolgevo in zone boschive e mi sentivo libera. Eravamo io e la montagna, senza alcun giudizio».
«Ero roccia, ora sono montagna». Il titolo del suo libro, così come il contenuto, racconta di una metamorfosi…
«Il titolo fu una frase che mi uscì spontanea mentre tenevo un convegno. Mi piacque molto perché racchiudeva tutto il significato della mia vita, dalla me bambina fino ad oggi. Ero una roccia, piccola ma indistruttibile e grazie agli insegnamenti dei miei maestri, allo sport, alla natura, sono cresciuta proprio come una pianta che poi germoglia. Sono diventata una montagna, sempre indistruttibile, ma anche impossibile da non notare e impossibile da spostare».
L’abbigliamento vistoso è una sua caratteristica. Nel libro racconta che non indossa mai vestiti neri perché le ricordano l’oppressione dell’hijab. Il suo guardaroba è cambiato negli anni?
«Non compero mai vestiti neri. A dire il vero ho una giacca nera che mi hanno regalato ed è davvero molto bella ma ogni volta che la provo poi la tolgo e scelgo altro. Comunque, amo essere visibile. Anzi, sono proprio dipendente, quindi scelgo sempre colori sgargianti per farmi notare. Questo perché in Iran ero come una pietra, invisibile, che poteva essere calpestata, maltrattata. Ero sempre vestita di nero anche se adoravo il giallo. Ora voglio che la gente mi veda e anche quando arrampico, indosso sempre un dettaglio appariscente, come i calzini fucsia. Anche caratterialmente sono una molto estroversa e che dice sempre la sua senza timore. Soprattutto combatto e mi batto per la libertà delle donne parlandone anche quando non è richiesto, come durante le interviste post gara».
Lo scorso settembre ha aperto la via «Women, life and freedom» sul Catinaccio, perché proprio in Trentino? E cosa significa per lei questa via, visto la dedica alla vita alle donne e alla libertà, mantra dell’ultima rivoluzione iraniana.
«Con il mio compagno (Sina Heidari, ndr) abbiamo iniziato il progetto “When mountains speak” (quando le montagne parlano, ndr) perché volevo lasciare un segno indelebile di libertà per la comunità della montagna. E quale modo migliore di farlo se non aprire nuove vie e dare loro dei nomi? Abbiamo iniziato in Francia con la prima via che abbiamo chiamato “Rise up for human rights”. L’anno scorso partecipai ad un evento proprio in Val di Fassa e l’organizzatrice mi propose di lasciare un segno in Trentino. Quella sul Catinaccio è solo la seconda via, spero di una lunga serie. Continueremo a tracciare il nostro cammino anche in altri paesi dedicando scorci di natura ai diritti umani e in particolare delle donne affinché nessuno possa più toglierlo e, soprattutto, che si tratti di un fatto politico».
Quando ha capito che era diventata un esempio di libertà anche per altre persone, per le donne iraniane in particolare?
«Nel momento in cui sono riuscita a capire che non ero inferiore a nessun altro uomo e ho voluto trasmettere questa sensazione anche agli altri, in primis, alle mie studentesse. In Iran ci insegnano che il cervello di una donna è la metà di quello di un uomo e noi cresciamo credendo di non essere all’altezza degli uomini. Veniamo picchiate, maltrattate fin dall’infanzia. Le donne iraniane perdono fiducia in loro stesse ed io ho dovuto lavorare moltissimo su me stessa per recuperare questo vuoto».
C’è una storia o una studentessa che le è rimasta nel cuore?
«Sono tantissime ma farò questo esempio: in Iran il ricorso alla chirurgia plastica è molto comune perché le donne non si sentono complete. Io durante le lezioni di climbing ho visto ragazze partire convinte di doversi “rifare” e che a fine corso avevano cambiato idea ed avevano acquisito una grandissima autostima. Non perché dicessi loro che non andava fatto, ma perché, durante i corsi le responsabilizzavo. Mostravo loro quanto erano semplicemente fantastiche e che non avevano bisogno di rifarsi il naso o il seno. Una studentessa ricordo che a fine corso mi ringraziò per questo».
Immaginiamo che all’Iran non piaccia molto quello che fa. Ora lei vive in esilio: si sente al sicuro in Europa? Pensiamo a Salman Rushdie che è stato aggredito nonostante risiedesse negli Stati Uniti…
«Io non posso più tornare in Iran ma a preoccuparmi ci sono molte persone a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, ovvero, estremisti che vivono in Occidente. Come vedete, sono ovunque. La loro presenza è un pericolo non solo per me, ma anche per i cittadini europei che parlano di libertà. Nessuno è al sicuro, nemmeno in Europa».
È ancora in contatto con la sua famiglia?
«Molto poco. Internet è filtrato ed è difficile contattarli. Ma questo è ciò che ho scelto per essere libera».
Secondo lei, le nuove generazioni cambieranno l’Iran?
«Certo. Le nuove generazioni stanno facendo dei grandi passi verso la libertà. Mia madre non aveva il coraggio di parlare anche se era contraria al regime islamico, oggi, invece, i giovani si ribellano e fanno il dito medio all’Ayatollah. Il vero cambiamento, però, avverrà solo se i governi dell’Occidente smetteranno di supportare il regime estremista iraniano, per esempio, evitando di eleggere l’Iran a capo del Forum sui diritti umani delle Nazioni Unite. Un’ultima cosa, il cambiamento deve partire dalle donne perché sono loro che hanno il potere di creare, di dare vita a una nuova creatura e a una nuova generazione. Gli uomini possono e devono supportare. Il mondo, la società, la religione sono maschiliste, sa perché? Perché temono il cambiamento».