L'analisi
martedì 29 Agosto, 2023
di Tommaso Di Giannantonio
«Le elezioni non si vincono solo sui social, ma è molto difficile vincerle senza farne uso». Ne è convinto Massimiliano Panarari, professore associato di Sociologia della comunicazione all’Università telematica Universitas Mercatorum di Roma e docente a contratto di Comunicazione politica all’Università Luiss «Guido Carli» di Roma. Ancora oggi, però, i politici utilizzano i media digitali, in particolare Facebook, con la stessa logica della comunicazione televisiva. «Per questo Instagram e TikTok hanno spiazzato i politici», dice.
Professore, oggi le elezioni si vincono sui social?
«Sì e no. Come sempre esiste una molteplicità di fattori, anche nella comunicazione. Non c’è dubbio che i social rappresentino il nocciolo duro della comunicazione per la loro capillarità, economicità e per la possibilità di rendere virali i contenuti. L’aura di disintermediazione li ha resi strumenti comunicativi molto apprezzati dal pubblico, che ha la possibilità di interagire con i politici. Da dieci anni a questa parte i politici utilizzano i social in maniera più massiccia, ma i nodi sono plurimi nell’ambito di una campagna elettorale. Innanzitutto bisogna saper impostare una campagna efficace, cioè che veicola messaggi in grado di intercettare sentiment di nuclei significativi dell’elettorato. Un altro elemento importante è quello di riuscire a fotografare con precisione i problemi reali di un territorio e riuscire a fornire risposte che diano quantomeno l’impressione di essere risolutive. Un terzo elemento è quello delle situazioni di emergenza, che rappresentano una benzina elettorale: c’è chi cavalca le emergenze, come fanno i populisti, oppure chi dà la sensazione di ridurle».
Senza i social, invece, si possono vincere le elezioni?
«È molto difficile, perché gran parte della comunicazione elettorale si svolge sui social. Si può vincere senza social nel caso di comunità cittadine piccole o nel caso in cui il politico sia presente in maniera continuativa sul territorio».
Com’è cambiato l’utilizzo dei social da parte dei politici negli ultimi anni?
«I politici hanno continuato a utilizzare i social come se fossero mezzi di comunicazione “verticali”, unidirezionali, come le televisioni. C’è sì la possibilità di interazione, ma non è scalfita la vetrinizzazione del politico. Il politico rimane il frontman o il frontwoman che cala il messaggio dall’alto. Per questo i social visuali come Instagram o basati sull’accelerazione del tempo come TikTok spiazzano i politici».
I social permettono di intercettare l’elettorato più giovane?
«I social raggiungono principalmente le fasce giovanili, ma sono strumenti, soprattutto gli ultimi social come TikTok, difficilmente utilizzabili in chiave politica perché sono strumenti di puro intrattenimento. La stampa britannica dell’Ottocento ha segnato il passaggio all’industrializzazione dell’editoria: i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di profitto, ai quali affidiamo una funzione di orientamento dell’opinione pubblica. Oggi i social perseguono la stessa logica: la loro funzione è generare profitti. E la loro principale funzione è intrattenere. La politica si è contaminata con l’intrattenimento, a partire dagli anni Ottanta, per rimanere nella logica mediale dei mezzi di comunicazione di massa, ma questo connubio è molto complesso e fa perdere profondità e contenuti. Oltretutto oggi viviamo in un’epoca di demobilitazione cognitiva in cui diventa molto difficile costruire proposte politiche dense di contenuti e poi argomentarle sui social».
Sui social si corre il rischio di banalizzare la politica?
«Questa è una vexata quaestio. Non sappiamo se la semplificazione politica dipenda dai social o se la politica abbia subito una semplificazione per via di altri processi. I due corni della questione sono eterni perché la funzione dei mezzi di comunicazione di massa, come i social network, è quella di massimizzare la proliferazione. I media di massa vanno alla ricerca di temi che riescono a raggiungere il più ampio pubblico possibile. La nostra è inoltre un’epoca di enorme semplificazione del messaggio perché dobbiamo far fronte a un opinionismo diffuso, per cui ognuno è portatore di un’opinione inderogabile. Al tempo stesso la politica, priva di ragioni ideologiche e narrazioni strutturate, tende a frammentarsi e proporre messaggi semplici anziché argomentazioni valoriali. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla trasformazione dell’opinione pubblica in emozione pubblica, un’aggregazione fortemente instabile in cui gli argomenti della vita pubblica passano per un contenuto emozionale molto forte, visto che non si riesce più a trovare una procedura di confronto valida per tutti».
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