L'intervista

domenica 31 Marzo, 2024

Elisa Ferracci ricercatrice del Cibio e pallavolista: «Di giorno studio i tumori, la sera gioco a volley»

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Ventotto anni e due squadre: il laboratorio di biotecnologie e la Basilisco Rotalvolley di Mezzocorona. «Mi piace dire che il professore per cui lavoro mi scelto anche perché ero un’agonista»

Nella vita di Elisa Ferracci, ventotto anni, ci sono due squadre. La prima è quella con cui lavora ogni giorno, formata dai colleghi del laboratorio di biotecnologie dove fa ricerca. La seconda è la Basilisco Rotalvolley di Mezzocorona, la squadra di pallavolo con cui gioca la sera e nei weekend. Non è sempre facile unire questi due mondi: chi fa ricerca non ha orari di lavoro fissi e gli esperimenti possono durare molto più del previsto. Dall’altro lato, lo sport richiede un impegno costante e può occupare il poco tempo libero che rimane. La dottoressa Ferracci, ricercatrice del Cibio in ambito oncologico, ci racconta di come sia riuscita a unire questi due mondi e di come lo sport le abbia dato una marcia in più anche nel lavoro.

Dottoressa Ferracci, ci può dire qualcosa su di lei e sul suo percorso di studi?
«Sono originaria di Rosora, un paesino vicino ad Ancona, dove sono rimasta fino all’università, che ho frequentato a Bologna. Lì ho ho ottenuto prima una laurea triennale in biotecnologie e poi una magistrale in biotecnologie farmaceutiche. Durante la magistrale avevo svolto un tirocinio in un istituto di ricerca oncologica a Forlì, dove mi sono appassionata alla ricerca sui tumori: l’ambito oncologico è uno scenario dove c’è ancora molto da capire, ed è quindi particolarmente interessante da investigare. Appena laureata ho avuto l’opportunità di svolgere un periodo di pre-dottorato al Cibio di Trento. Poco dopo ho vinto il concorso di dottorato, e ho iniziato a fare ricerca sui tumori al fegato nel laboratorio del professor Fulvio Chiacchiera».
Potrebbe dirci di più sull’oggetto della sua ricerca?
«In generale, il laboratorio dove lavoro studia i tumori epatici e in particolar modo le proteine che subiscono più mutazioni nei tumori al fegato. Recentemente, abbiamo pubblicato uno studio sulla proteina codificata dal gene ARID1A: la mutazione del gene che codifica questa proteina causa altre mutazioni che aumentano l’insorgenza tumorale. Poter individuare l’insorgenza di questa proteina mutata può essere un campanello di allarme importante per lo sviluppo dei tumori epatici».
Assieme alla ricerca, il suo altro amore è la pallavolo. Com’è nata questa passione?
«In realtà è nata perché un po’ tutti attorno a me la praticavano, a partire da mia sorella e mia cugina. Mi sono avvicinata alla pallavolo un po’ tardi, verso le medie, giocando in una società del mio paese: ho scoperto che mi piaceva stare in una squadra, conoscere altre persone e giocare con loro. Così ho continuato a giocare: ho scoperto che non me la cavavo poi così male, e che con la pallavolo potevo togliermi qualche soddisfazione».
Quindi è riuscita a giocare a pallavolo anche durante gli studi universitari.
«Certamente: avevo scelto di studiare a Bologna anche perché lì era presente un buon bacino di squadre. Inoltre, la pallavolo poteva anche essere un modo per sostenere le spese da fuorisede. A Bologna ho giocato nella CSI Clai Imola, prima in serie B2 e poi in B1: la società mi ha fornito un alloggio e mi ha aiutato a gestire la mia vita da studentessa fuorisede. È stata un po’ come una famiglia che mi ha aiutato quando mi sono allontanata da casa per la prima volta».
Le cose sono cambiate quando ha iniziato a lavorare come ricercatrice?
«Purtroppo, quando mi sono trasferita a Trento ho smesso di giocare per un paio di anni. Chi fa ricerca non ha orari di lavoro prestabiliti, quindi pensavo che prendere impegni con una società sportiva potesse essere difficile. In realtà, appena mi sono ambientata meglio, ho ripreso a giocare prima con l’ATA Trento in B2 e quest’anno in serie C nella Basilisco Rotalvolley di Mezzocorona. Negli anni precedenti avevo sempre cercato di unire università e pallavolo: avere un impegno quotidiano con gli allenamenti era una valvola di sfogo, mi aiutava a gestire la pressione dello studio. Non è facile: sono due ambiti che richiedono impegno, ma se si ha la volontà è possibile fare fare entrambe le cose».
C’è stato un momento in cui ha pensato di abbandonare lo sport per dedicarsi solo al lavoro?
«Quando sono arrivata a Trento, come dicevo, sentivo la necessità di fermarmi: avevo giocato per tantissimi anni e avevo bisogno di una pausa. D’altronde, la pallavolo impegna sopratutto le sere e i weekend, e a un certo punto si inizia a volere un po’ più di tempo libero. In quel periodo di stop avevo pensato di lasciare definitivamente lo sport, ma poi ha iniziato a mancarmi molto. È bello poter frequentare un gruppo diverso da quello del lavoro e sopratutto mi mancava giocare in una squadra. In realtà, il mondo dello sport mi ha aiutata anche in ambito lavorativo. Mi piace dire che il professore per cui lavoro mi scelto anche perché ero un’agonista, una persona capace di reagire alle sconfitte che si possono incontrare durante la ricerca. Aver giocato in uno sport di squadra è un plus nel curriculum per ogni lavoro: si sviluppano capacità utili in tutti i contesti lavorativi, dove devi per forza relazionarti con gli altri».