Esteri

domenica 15 Dicembre, 2024

Eric Jozsef: «La crisi della Francia è il riflesso dell’Europa. Bayrou premier? Macron lo ha sempre temuto»

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Il corrispondente di Libération: «Il parlamento francese non è mai stato così importante. L'Italia resiste grazie al sostegno europeo, sovvenzioni e prestiti»

Ultimamente non si può dire che la vita politica della Francia sia propriamente «En rose» come cantava leggera e iconica Edith Piaf.
Un’elezione europea che ha certificato la crescita dell’estrema destra del Rassemblement National e come il partito del presidente Macron non avesse più la maggioranza, la conseguente decisione di sciogliere il Parlamento, un turno elettorale che all’ondata di destra ha contrapposto la vittoria delle forze repubblicane guidate dall’alleanza di sinistra tra socialisti e France Insoumise. Poi un governo tra il «balneare» e l’«autunnale» fatto cadere proprio da un vonto congiunto al Parlamento di sinistra e destra e ora un nuovo incarico di governo affidato da Macron al navigato centrista Bayrou. La situazione politica francese non è mai stata così fluida, inedite anche le crepe nel governo tedesco, fattori che portano Eric Jozsef, storico giornalista e corrispondente dall’Italia di Libération, a spiegare che si «tratta di cadute di una crisi sistemica che coinvolge tutta l’Europa».

Jozsef non siami abituati a vedere questo genere di instabilità in Francia. Che sta succedendo?
«È vero e questo perché la stabilità in Francia è quasi iscritta nella Costituzione della Repubblica, che fa girare tutta la vita politica attorno all’elezione del Presidente della Repubblica che di solito ha una maggioranza in parlamento. Da lì repubblica semi presidenziale. Lo spirito era quello di avere un potere verticale con due blocchi: destra e sinistra. Oggi non è più così, in parlamento ci sono tre blocchi senza maggioranza: quello di estrema destra, i liberali e i repubblicani con Macron e poi una sinistra unita tra moderati e massimalisti. La rottura del sistema bipolare e la nascita di questo momento politico a tre poli genera l’instabilità. Bisogna chiedersi quali siano i motivi che hanno prodotto questo risultato nelle urne. La risposta sbrigativa sarebbe che si tratta di una particolare situazione post voto ma, secondo me, è il frutto di una crisi molto più profonda. Una crisi non solo politica, ma anche sociale e identitaria. Il problema è che il nostro paese, come tutti i paesi europei, è troppo piccolo per fronteggiare i grandi problemi del momento da solo. La Francia rappresenta il 3% del pil mondiale e basta, avendo sviluppato tra l’altro un sistema sociale molto generoso che va tenuto in piedi producendo ricchezza e redistribuendola. Questo vuol dire che i cittadini si aspettano molto dal presidente che eleggono direttamente. Il problema è che poi il presidente ha pochi strumenti a disposizione per fronteggiare queste grandi sfide tecnologiche, economiche, climatiche e migratorie. Questo è il dato molto forte. Se si guardano agli ultimi 15 anni politici, in Francia siamo passati dal repubblicano Sarkozy, fuori dopo un solo mandato cosa poco abituale nella Repubblica francese, poi al socialista Hollande, anche lui diventato rapidamente così impopolare da non presentarsi per un secondo mandato, fino all’arrivo dell’uomo nuovo, Macron, che è sia di destra che di sinistra. Una novità e una rottura degli schemi che gli ha permesso di confermarsi per un secondo mandato, ma che ora non soddisfa le attese. È la sua attuale impopolarità che ha generato una doppia opposizione di destra e di sinistra che poi a sua volta genera questa instabilità. Instabilità non congiunturale quindi, ma frutto di una crisi più profonda di un paese che fa fatica ad adattarsi alle modificazioni del mondo».

Le trattative post voto avevano portato al governo Barnier, sostenuto da liberali e repubblicani con l’appoggio esterno dell’estrema destra. Una trattativa che ha escluso la sinistra è dato vita a un esecutivo fragile. Come mai questa scelta?
«Va detto che la sinistra ha vinto le elezioni del Parlamento ma non le ha stravinte, non aveva la maggioranza assoluta. Va inoltre sottolineato che, al secondo turno, candidati del fronte popolare sono stati votati anche da elettori di centro o centrodestra per scongiurare la vittoria di Le Pen e viceversa in collegi dove c’erano candidati moderati che sono stati scelti da elettori di sinistra. Il risultato è un parlamento senza una maggioranza chiara a cui aggiungere due elementi. Da una parte una coalizione di sinistra ostaggio del leader di France Insoumise Mélenchon che al tavolo si è presentato dicendo “vogliamo un governo che applichi il nostro programma”, dando poco spazio alle trattative, e dall’altra un Macron poco propoenso a seguire questa via per paura venissero messe in discussione le sue riforme, soprattutto quella sulle pensioni. Da questo impasse è nato l’accordo tra centro, destra moderata e con il sostegno esterno di Le Pen. Che però è durato poco».

Ora è stato nominato Bayrou, che significa?
«È l’ultima carta che Macron si potesse giocare. Sarà il suo quarto ministro in due anni, Bayrou era 7 anni che aspettava questo momento, essendo stato uno dei più stretti alleati del presidente in questi anni, cruciale per la sua prima elezione. È un uomo dal carattere forte e dal libero pensiero che Macron aveva evitato di mettere al centro della scena politica fino ad ora per paura che lo mettesse in ombra, ma adesso non aveva più scelta. Ora Bayrou dovrà provare a risolvere il rebus della maggioranza. Per il momento il partito di Le Pen non gli è ostile, ma l’idea è che Bayrou voglia aprire alla sinistra moderata. L’ipotesi paventata è che i socialisti abbiano proposto a Bayrou di non sfiduciarlo se lui promette di non utilizzare il comma 3 dell’articolo 49 della Costituzione francese, che consente al primo ministro di far approvare un testo di legge in materia finanziaria senza passare da una votazione parlamentare. Il meccanismo che Barnier ha usato e che ne ha portato alla sfiducia. Se Bayrou accettase potrebbe costruire una coalizione di minoranza con un governo molto parlamentarizzato. Il Parlamento ritroverebbe un peso che nella Francia della quinta repubblica sarebbe una cosa inedita, con una maggioranza fluida che si consoliderebbe di volta in volta a destra o a sinistra a seconda della legge. Il rischio però è quello della paralisi».

Contemporaneamente assistiamo anche alla prima grande crisi politica della Germania.
«Perché sono entrambe frutto della crisi sistemica dell’Europa. Per tanti anni è stata una Germania solida a dettare la linea politica europea, con piani e obiettivi quindi tarati sulle necessità tedesche. La politica europea era politica tedesca e lo dico senza aspetti nazionalisti, ma puramente di analisi, colpa anche di paesi come Francia e Italia di riequilibrare questo fenomeno. Ora il modello tedesco è entrato in crisi per la perdita dell’energia a basso costo dalla Russia, la chiusura della Cina al suo export e con l’ombra dei dazi di Trump. Il modello economico è entratto in crisi e si è portato dietro quello politico. I liberali, assieme alla Cdu, vorrebbero rivedere il patto di trasformazione dell’automotive, mentre i verdi spingono per andare avanti e intanto l’estrema destra di Afd cresce. Crisi europea e crisi nazionali sono parte di un unico ciclo che si auto alimenta».

In questo contesto l’Italia, a lungo nota per la sua instabilità, sembra un’eccezione?
«Vero, ma va fatta qualche considerazione. La stabilità si basa sul voto a una coalizione di destra, in Francia diremmo di estrema destra, in cui cambiano i leader di riferimento del momento, Berlusconi, Salvini e ora Meloni, ma che è un blocco che ha un elettorato fedele. L’Italia ha già fatto, con Monti, quelle riforme delle pensioni che oggi generano spaccature in Francia. Infine a favorire la stabilità in Italia c’è il grande sostegno europeo ed è giusto chiedersi come sarebbe la tensione sociale oggi nel paese senza il Pnrr. L’Italia riceve il 10% del suo Pil in sovvenzioni e prestiti, sono queste risorse a tenere in piedi la debole crescita italiana. Una crescita sostenuta dell’industria del nord che però rischia di entrare in crisi nel contesto che abbiamo delineato. È una stabilità più fragile di quello che si crede».