L'intervista
domenica 16 Aprile, 2023
di Sara Zanatta
«Le mie montagne preferite sono le Dolomiti in estate». Scrittore, poeta, giornalista e traduttore, la montagna fa parte della sua vita e dei suoi racconti. Come «Sulla traccia di Nives» (Feltrinelli, 2005), scritto dopo aver partecipato a una spedizione himalayana con l’amica Nives Meroi, e «Il peso della farfalla» (Feltrinelli, 2009), un racconto che si svolge in montagna tra un vecchio cacciatore di frodo e un camoscio. Erri De Luca è un amante della roccia e si definisce un «praticante di alpinismo». Perché preferisce ripetere le vie che hanno già una storia, «sapere di mettere mani e piedi su appigli che sono stati toccati da generazioni di alpinisti prima». Aprire una via invece, non lo ha mai interessato. «Mai battuto neanche un chiodo. Quel gesto di lasciare il segno, in montagna non ce l’ho. In editoria sì».
Come entra la montagna nelle sue storie? È tutta questione di una camminata e un taccuino?
«Ci sono cose che mi sono successe in montagna che ho organizzato in forma narrativa. Io posso scrivere solo storie che conosco, che mi sono passate per il corpo. Per cui scrivo storie ambientate in montagna perché una parte della mia esperienza fisica si è svolta in montagna. Scrivo a penna su quaderno, niente computer. E mi sono accorto che camminare in montagna mi fa affiorare ricordi, mi lascia delle suggestioni. Per esempio, “Impossibile” (Feltrinelli, 2019) è una storia che mi è venuta in montagna: mi sono ricordato di una cengia «scorbutica» che ho dovuto percorrere tanto tempo fa e così lì ho ambientato una storia».
Oltre a ritornare sulle vie che ha percorso attraverso il ricordo, le capita anche di fare ritorno sulle sue «vie» letterarie?
«Ci son tante cose belle da leggere, non mi metto certo a rileggere me stesso! La lettura è un’attività più entusiasmante della scrittura. Da lettore ho frequentato delle vette letterarie gigantesche».
Ad esempio, per quanto riguarda la letteratura di montagna, che tipo di libri apprezza?
«Sono stato un ammiratore dell’alpinista Paul Preuss, allora c’era una biografia scritta da Severino Casara – “Preuss l’alpinista leggendario”, Longanesi 1970 – che mi è piaciuta molto. Casara scrive per ammirazione e l’ammirazione è una misura che permette di rispettare la distanza».
Alcuni scrittori vivono la scrittura anche con ansia, senso di fatica, paura. Lei come vive l’atto di scrivere?
«Mi spiace per loro! Io se fosse una sofferenza facevo ‘naltra cosa! [ride]. È un’attività abbastanza comoda, oltre che lieta. Quando cominci un racconto è come se dovessi aprire una via: sei alla base della parete e puoi scegliere qualunque tipo di percorso. Devi cercare la tua linea in quella vastità. Più sali, più la montagna si restringe. E così la scrittura: all’inizio puoi andare dappertutto, poi più vai avanti più il percorso si restringe e arrivi alla fine che non hai più spazio intorno».
Eppure lei è un uomo di mare…
«Quello con il mare è un rapporto genetico. Appartengo a quella specie botanica che cresce solo a favore di esposizione solare: crescevo solo al mare, nei mesi estivi, in città non aumentavo di un centimetro. Il mare è anche il luogo in cui ho cominciato a capire che quella che chiamiamo natura è un posto che non è fatto per noi, è così gigantesca e indifferente a noi che mi fa considerare sempre un ospite non invitato nei suoi spazi».
A proposito di inviti, ne ha ricevuto diversi al Trento Film Festival… forse non tutti graditi.
«Sono venuto diverse volte a presentare libri. Se c’è Mauro Corona, siamo amici, capita che bazzichiamo insieme. Ma, è vero, ho anche un ricordo un po’ spiacevole. Avevo scritto il libro-dialogo con Nives Meroi che piacque a Mario Rigoni Stern, al tempo presidente della giuria letteraria. I premi funzionano così: gli editori mandano i libri alle giurie, e queste decretano il vincitore. Il mio editore, per mia espressa raccomandazione, non manda libri miei a nessun premio letterario. Perché preferisco che li vincano quelli che li desiderano i premi letterari, a me non importa. Però Mario Rigoni Stern decise che doveva premiare quel libro con il Cardo d’oro. Per cui io di fronte al fatto compiuto, decisi di rifiutarlo e feci questo sgarbo, del tutto involontario. Quindi venni a Trento a presentare il libro ma non ritirai il premio».
Com’è la città nei giorni del Festival? Che atmosfera si respira?
«Quella tipica di un importante festival cinematografico. Mondana, appariscente, forse si prende meno sul serio di altri. Perché c’è più sobrietà da parte dei protagonisti, che sono persone che si sono fatte le ossa in montagna. Per la città è un’occasione per mettere fuori il vestito buono, poi si rimette in armadio. È come dire quanto è importante il Festival di Cannes per Cannes? È importante per quel periodo dell’anno, poi Cannes è una città tranquilla».
A Trento si intrecciano letteratura e cinema di montagna. Che rapporto c’è tra questi due linguaggi?
«Il cinema ha bisogno di storie e le prende spesso dalla letteratura, ha un enorme bacino a disposizione. Il cinema però è un riassunto generale delle arti: c’è dentro la musica, la fotografia, la pittura. L’ultima delle arti è quella che le riassume tutte. La letteratura è una delle arti dentro le quali il cinema pesca. D’altra parte uno scrittore si trova una propria storia al cinema ingrandita, e la trasposizione cinematografica ingrandisce anche il suo nome. Pensiamo al cinema neorealista: tutta la generazione di scrittori di quell’epoca sognava e scriveva per il cinema. Pasolini se non avesse fatto cinema, sarebbe stato semplicemente un poeta e uno scrittore di qualche libro».
La fatica della montagna e la fatica del lavoro…
«C’è una disciplina che mi è stata trasmessa dai mestieri manuali che ho fatto, da quell’attività fisica intensa e logorante. È una disciplina che ritrovo anche quando faccio delle attività liete, come andare in montagna e scalare. Però si parla spesso del coraggio di andare in montagna. Ecco io posso dire che il coraggio vero è di chi i rischi se li deve prendere per forza, non per gusto o per scelta. L’attività in fabbrica, nei cantieri, ecc. ha bisogno di coraggio. Lì il rischio ti tiene compagnia per tutta la giornata di lavoro, basta guardare i dati degli incidenti sul lavoro in Italia che sono impressionanti. Quello lo chiamo coraggio, un coraggio obbligatorio. Mentre quello di fare una via slegato, quello ha a che vedere con la tua felicità fisica».
(L’intervista è contenuta nel volume «Scalare il tempo, 70 anni di Trento Film Festival» (MonturaEditing) che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autrice)