L'intervista
sabato 6 Maggio, 2023
di Margherita Montanari
Il dibattito sul futuro della rete prospetta scenari di interazione sempre più immersivi e vite trascorse negli interstizi tra reale e virtuale. Ma l’avvenire tecnologico a cui dobbiamo prepararci potrebbe essere molto diverso. Per Esther Paniagua, giornalista specializzata in scienza e tecnologia, quanto costruito fin qui non va potrebbe scomparire. Non è questione di se, ma di quando. Il blackout di Internet è questione di tempo.
Paniagua, che cosa pensò la prima volta che sentì parlare di Internet?
«All’inizio la mia percezione era ottimistica. Internet è entrato nelle nostre vite con promesse che prefiguravano qualcosa di magico. La possibilità di connettersi con persone in ogni parte del mondo è stata accompagnata dall’idea che la rete avrebbe migliorato la qualità di vita, aiutato le comunità e le persone marginalizzate. Rendendo più partecipativi e praticabili i processi democratici. Al tempo stesso, si è pensato che avrebbe reso la conoscenza accessibile a tutti, portando l’educazione anche nelle aree più remote».
Oggi cosa rimane di quell’idea?
«Quelle promesse non si sono realmente materializzate. Internet ha finito per diventare una grande gabbia. Piena di effetti collaterali: polarizzazione, sorveglianza, disuguaglianze e pervasività dei pregiudizi di genere. Per me è quindi diventato fonte di preoccupazione».
Nel saggio che ha scritto (Error 404, Einaudi) supporta una tesi che mette in dubbio l’esistenza del mondo che conosciamo oggi. Perché dovremmo prepararci ad una realtà senza internet?
«Ho scritto un saggio proprio per rendere i cittadini consapevoli di queste storture e più responsabili nel modo di utilizzare tecnologie. Tutto parte da una tesi di Daniel Dennett, filosofo della scienza, il quale teorizzò che internet sarebbe collassato. Ho investigato per capire se tecnicamente ci fosse questa possibilità. Esistono vulnerabilità, nei protocolli alla base del funzionamento di Internet, che possono causare il collasso della rete. Sia a causa di errori umani, sia per mano di hackers, sia per interesse dei governi. Già nel 1998 un gruppo di hackers disse di avere le capacità per far collassare internet nel giro di mezzora, usando le falle del protocollo Border Gateway Protocol (una sorta di Gps, in grado di indirizzare un’informazione da un posto a un altro della rete, individuando le strade più brevi). Fu questa la causa del blackout dei social di Meta, nel 2021. Poi c’è il protocollo Domain Name System (Dns), una sorta di rubrica telefonica di internet. Proprio per la sua vulnerabilità, oggi è protetto da 14 guardiani che ne detengono le chiavi».
Un eventuale collasso di internet sarà irreversibile?
«No, si tratterà di una sorta di blackout. Non penso che uno scenario in cui internet sparirà non sia fattibile. Solo nel caso di una tempesta solare, che sarebbe lo scenario più improbabile, potrebbe esserci un rischio di distruzione di ogni tecnologia disponibile, riportandoci al Medioevo in termini di sviluppo tecnologico».
La rete è diventata un importante megafono per battaglie sociali: da Me Too al Black Lives Matter. Oltre che per errori tecnici, internet può crollare anche per mano dei governi che cercano di silenziare certe proteste?
«È una delle possibilità, direi la più semplice e la più frequente, di interruzione intenzionale della connessione. Abbiamo visto come le autorità iraniane abbiano bloccato Internet per placare le proteste. Il fenomeno diventa sempre più comune man mano che diventiamo più digitalizzati. Un caso emblematico ha riguardato l’India, che ha bloccato la rete in Kashmir per sette mesi. È importante evitare che questo modus operandi diventi strutturato, come è in alcune autocrazie, come Russia e Cina».
Lei studia anche dinamiche di potere intrinseche al digitale. In che termine i pregiudizi di genere si insinuano nelle tecnologie?
«Prima di tutto esiste un divario di genere in termini di accesso alle tecnologie e alla conoscenza informatiche. In secondo luogo, le tecnologie perpetrano stereotipi, pregiudizi e discriminazioni presenti nella società. È il caso dell’intelligenza artificiale. Il problema dell’IA è che si basa su algoritmi in grado di far sintesi dalle informazioni esistenti in rete, dove sono presenti anche una serie di bias di genere. In questo modo si rischia di riprodurre costrutti errati a svantaggio delle donne».
Ad esempio?
«In fase di assunzione, Amazon ha utilizzato un software automatizzato per selezionare profili Ict. Quel software, essendo allenato sul pattern di lavoratori precedenti, partiva dal presupposto che un profilo femminile non fosse ideale. Così agli uomini sono stati assegnati punteggi più alti. È la dimostrazione che, se non aggiustate, tecnologie innovative rischiano di escludere le donne – come anche minoranze o comunità – da certi ambiti. Bisogna pensare di ottimizzare il loro funzionamento, prima di sdoganarle».
Come vede la decisione del garante della privacy italiano di bloccare Chat Gpt?
«Sono d’accordo. Penso che Chat Gpt, per come è ora, sia uno strumento illegale. Non solo perché replica alcuni stereotipi esistenti. Ma soprattutto per il tema della tutela della privacy e di non conformità ai diritti di proprietà intellettuale. L’app dovrebbe chiedere un’autorizzazione».
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