Il ritratto
martedì 16 Gennaio, 2024
di Paolo Ghezzi
«Con un bisogno d’attenzione e d’amore troppo Se-mi-vuoi-bene-piangi per essere corrisposto». Su 128 canzoni, metà delle quali sono entrate nel canzoniere degli italiani, due sole sono le canzoni autobiografiche di Fabrizio De André. «Amico fragile» del 1975 (da cui la citazione iniziale) e «Giugno ’73», dallo stesso album, «Volume 8».
Nessun cantautore, né in Italia né in Francia (con l’eccezione forse del suo maestro Brassens) né tra i songwriter anglosassoni, è stato così avaro di confessioni autoreferenziali come il Gran Genovese (1940-1999). Nonostante la sua biografia avventurosa, le variegate avventure erotiche umane e intellettuali, le sue ancestrali paure (la timidezza e il timore di esser brutto per via di una palpebra calante: «un occhio alla zuava»). Le sue canzoni cantano invece le vite degli altri. Quindi le nostre. Forse è per questo che le sue canzoni ci hanno emozionato, coinvolto, commosso. E continuano a farlo, 25 anni dopo la sua partenza dal palcoscenico del mondo.
La galleria di «storie altrui»
La sua galleria di «storie altrui» è ampia e pulsante. L’obiettore di coscienza (il soldato Piero che non spara per ammazzare uno uguale a lui, solo la divisa di un altro colore…). Il musicista (il suonatore Jones, che suona solo perché gli piace lasciarsi ascoltare; e muore sulla strada, spezzando il suo flauto senza «neppure un rimpianto»). La donna vittima del femminicida (Marinella, scivolata nel fiume a primavera). Il viado venuto a Milano da Bahia, per offrirsi su un’altra via (Prinçesa). La prostituta per vocazione e passione (Bocca di Rosa, che sconvolge il paesino di Sant’Ilario). Il boss della criminalità organizzata (Don Raffae’).
E si potrebbe andare avanti con decine di altre figure archetipiche o paradigmatiche, per usare due paroloni che non farebbero giustizia al Nostro, che è stato anzitutto un cantastorie, prima e oltre qualsiasi velleità emblematica. Ma contemporaneamente anche «moralista» nel senso buono del termine, cioè «intellettuale in canzone» o «poeta per musica», che vuole contestare il facile moralismo del potere e dei benpensanti che vi si allineano, nella condanna di ogni aspetto deviante delle esistenze altrui.
Il Sessantotto e la Buona novella
Così non è paradossale, ma coerente, che Faber (soprannome conferitogli in età giovanile dall’amico Paolo Villaggio, per la sua predilezione delle matite colorate della prestigiosa marca Faber-Castell) in pieno ’68/69/70 della contestazione studentesca e del protagonismo operaio-sindacale, abbia pubblicato non un disco arrabbiato sulla rivolta in corso ma un meraviglioso concept album di storie evangeliche, «La Buona Novella». Perché Faber considerava Gesù il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, ma anche perché tornare a raccontare la sua storia dall’angolo prospettico della madre-fanciulla Maria gli permetteva di ribaltare i comandamenti del potere, come nel programmatico «Testamento di Tito»: «Lo sanno a memoria il diritto divino,/ e scordano sempre il perdono;/ ho spergiurato su Dio e sul mio onore/ e no, non ne provo dolore». Ecco, se De André fosse stato Mosè, avrebbe riscritto le tavole della legge con soli due comandamenti: primo, innamorarsi di tutto; secondo: non giudicare nessuno.
Il libertario anti-autoritario
Anarchico-individualista alla Stirner ma pure indipendentista (per la sua amata Sardegna), da libertario anti-autoritario De André si è tenuto alla larga da tutte le chiese anche se poi quasi tutte, da quella comunista a quella cattolica, hanno finito per adottarlo: perfino un capo leghista, una volta, mi disse nell’aula del Consiglio provinciale che l’unica cosa che avevamo in comune era Fabrizio De André, pensa te.
Dunque Faber uomo per tutte le stagioni, e non nel senso nobile di Thomas More?
Non direi proprio, semmai autore «plurale» capace di abbracciare le più varie sensibilità: ma se uno va a rileggersi i suoi testi, la destra postfascista-leghista-berlusconide ha ben poco da rispecchiarsi. Basta prendere «La città vecchia» che, partendo dalla Trieste di Saba va oltre la sua Genova per diventare specchio universale dell’umanità negli interstizi marginali della storia: «Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli/ in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori,/ lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano,/ quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano./ Se tu penserai e giudicherai da buon borghese/ li condannerai a cinquemila anni più le spese./ Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo/ se non sono gigli son pur sempre figli,/ vittime di questo mondo».
Coerentemente, in «Via del Campo» scritta con Jannacci (Faber ha sempre collaborato con tanti e con i migliori, da Piovani a De Gregori a Fossati): «dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior» e in «Suzanne» (tradotta da Cohen), le alghe («seaweed») del Gran Canadese, alghe dove si scoprono gli eroi, diventano «alghe marce». Perché nel disfacimento della vita si cela il segreto della formidabile, resistente bellezza del mondo.
Non è che, alla fine, da don Gallo a papa Francesco (che lo ascolta e lo ama) non è che abbiamo esagerato, con questo De André evangelista e profeta? Il narcisista che era in lui forse sorriderebbe soddisfatto, l’anarchico agricoltore ci manderebbe tutti a fare un bagno freddo: «Datevi una calmata, sono solo canzoni, belìn, solo canzoni».
Le canzoni che resistono ad ogni tempo
Però è un quarto di secolo che se ne è andato, il Gran Cantore degli Umili, eppure quelle canzoni, belìn, continuano a risuonare, nell’aria e dentro di noi, con tutta la vibrazione profonda delle parole importanti.
Fanno ormai parte del nostro patrimonio culturale ma anche della nostra grammatica sociale. Ne abbiamo ancora bisogno, in tempi drammatici dove ritornano le parole d’ordine della sicurezza e del giudizio, in tempi dove risuonano – davvero profetiche – le parole dell’ultimo suo disco «Anime salve»: «La maggioranza sta, alta sul belvedere dei disastri…».
Le mille minoranze del mondo, e le anime salve di quelle minoranze hanno ancora bisogno del punto di vista di Faber, autore della più bella rilettura contemporanea dei vangeli, della storia della madre ragazzina di quel rabbi di minoranza, venuto giù a Gerusalemme da una Nazaret senza importanza.
Testi che «stanno in piedi da soli», al di là delle stucchevoli altezzosità di certi poeti «laureati» anti-cantautori (Sanguineti e Cucchi, per non far nomi). Il gran poeta Luzi non aveva dubbi: «Caro De André, lei è davvero uno chansonnier, vale a dire un artista della chanson. La sua poesia, poiché la sua poesia c’è, si manifesta nei modi del canto».
Ora che dilaga, nel mondo, una voglia di Nazione e di Prigione e di Divisione tra garantiti e diseredati, anime belle e vite sporche, uomini con diritti e gente senza nulla, il corpus dei testi deandreiani è ancora lì, forse non imponente ma prezioso, importante, lucente.
Storie da riascoltare, da rileggere. Storie vere, parole forti. Libere e liberanti.
Paolo Ghezzi è autore di «Laudate hominem: il Vangelo secondo De André», in libreria dal 24 gennaio 2024
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