Trentino 2060
giovedì 29 Giugno, 2023
di Emanuele Paccher
Vanta 474.000 iscritti al canale YouTube, 1.340 video pubblicati e la capacità di far sognare parlando dello spazio e delle ricerche scientifiche: ecco qui il ritratto di Adrian Fartade. Nato il 2 aprile 1987 a Bacau, in Romania, si trasferisce in Italia all’età di 15 anni, dove studia informatica alle scuole superiori e, successivamente, si laurea in storia e in filosofia all’Università di Siena. Appassionato di recitazione e di astronomia, nel 2009 decide di aprire il suo canale YouTube «Link4Universe», dove inizia a raccontare le più recenti scoperte scientifiche.
Autore di tre saggi e di un libro-gioco, sarà con il suo monologo dal titolo «Come immaginavamo il futuro ieri» che, questa sera alle 20.30 in piazza Degasperi a Borgo Valsugana, si aprirà ufficialmente la quinta edizione del Festival Trentino2060 organizzato dall’associazione culturale Agorà e di cui «il T quotidiano» è media partner.
Fartade, ma come ce lo immaginavamo il 2023 in passato?
«Ce lo immaginavamo in modo molto diverso. In generale noi siamo molto tecnofili, e quindi quando dobbiamo pensare al futuro pensiamo principalmente alla tecnologia, al come cambiano le comunicazioni e i trasporti. Un altro fattore che condiziona tantissimo l’immagine del futuro è il contesto in cui ci si trova. Oggi se noi guardiamo alle previsioni del passato ci viene da sorridere nel vedere quanto sono ingenue. Tutte previsioni sbagliate, soprattutto dal punto di vista sociale: ci sono illustrazioni degli anni ’50 che replicano, per gli anni 2000, la cultura casalinga dell’epoca. Si fa fatica ad allontanarsi da quella che è l’ordinaria visione del mondo. La società è sempre un po’ refrattaria al cambiamento, anche mentre immaginiamo il futuro».
Oggi uno dei temi più complessi e che più ci spaventano è quello dell’intelligenza artificiale. Stravolgerà il mondo?
«In realtà, i primi articoli che ci parlano di come l’intelligenza artificiale da un momento all’altro cambierà tutto sono degli anni ’80, quindi non è poi un tema così nuovo. Certamente è un tema che attira tantissimo l’attenzione. Già dalla comparsa dei primi computer si parlava di come gli assistenti sarebbero scomparsi. Ogni volta che c’è un nuovo ingresso di processi automatizzati di questo tipo si parla di come sta per essere stravolto il mondo. Non voglio però banalizzare: sicuramente oggi c’è qualcosa di diverso da qualsiasi cosa vista finora, e ci sono enormi sfide dietro. Ma allo stesso tempo non è detto che succederà ciò che ci immagineremo. Anzi, occorre tenere a mente una regola: difficilmente il mondo è come ce lo immaginiamo».
Il titolo del festival di quest’anno, visti i recenti avvenimenti che hanno esacerbato la fiducia nei confronti del domani, è «Trentino 2060: un futuro in stand by». Crede che anche nel campo scientifico il futuro sia in stand by o ci sono molte scoperte e novità all’orizzonte?
«La quantità di scoperte che noi faremo ovviamente non la possiamo sapere. Però se guardiamo al trend notiamo come le scoperte siano in rapido aumento, e quindi non è azzardato pensare che nel prossimo futuro ce ne saranno tante di più. Questo però è condizionato anche dalla nostra capacità di finanziare la ricerca in modo adeguato. Le scoperte non è che arriveranno solo perché arriverà il “futuro”, ma dipenderà molto da quanto investiremo in quel futuro».
L’Italia, da questo punto di vista, com’è messa?
«In Italia potremmo fare davvero molto di più. Ci sono tanti talenti, opportunità, potenziale. Solo che è un po’ come quando a scuola gli insegnanti dicono ai genitori: è bravo ma non si applica. Il problema è che quando la politica parla di ricerca si spendono tante belle parole, ci sono tante frasi altisonanti. Tutti i politici dicono di voler investire in ricerca. Solo che alla fine della storia servono i soldi, non belle parole. La ricerca può portare tantissimo alla nostra società. Se si investe in fisica delle particelle si possono scoprire nuovi modi per curare i tumori, se si investe nella ricerca dei materiali possiamo costruire città migliori. La ricerca non è un reparto stagno, ma coinvolge tutta la società».
Proviamo ad azzardare noi una previsione: come sarà il 2060?
«Credo che il cambiamento climatico sarà la più grande sfida da dover affrontare. Stiamo parlando di un problema molto più grande rispetto alle singole nazioni. Questa idea degli Stati nazionali era molto bella e carina quando l’abbiamo inventata secoli fa, quando non avevamo problemi globali da affrontare. Ma oggi la situazione è diversa. Serve cambiare tutto: da come produciamo, a come consumiamo, a come parliamo tra di noi. Utilizzare ancora il costrutto delle nazioni è come cercare di usare la macchina da stampa a caratteri mobili di Gutenberg per stampare alcune migliaia di libri. È una cosa che puoi fare, ma è incredibilmente inefficiente».
E questo che conseguenze avrà?
«Quando un sistema non è sotto pressione le problematiche interne possono non emergere in modo troppo aggressivo. Cose che fanno parte del nostro sistema, come razzismo, sessismo, omofobia, emergono poco in una situazione tranquilla. Ma quando la società è messa sotto pressione i suoi lati peggiori vengono amplificati. Pensiamo alla pandemia: la maggior parte delle persone che hanno perso il proprio lavoro sono state le donne. È una cosa già vista, sappiamo che succederà. Quindi da qui al 2060 penso che avremo enormi difficoltà con i problemi sistematici che abbiamo e che ignoriamo tuttora. Se non li risolviamo ora che non siamo troppo sotto pressione, nel 2060 rischiamo di far scoppiare una bomba che porterà ad una forte emarginazione e a discriminazioni maggiori. Persone benestanti, bianche, ricche, cis, etero, abili potranno avere accesso a risorse che per altri saranno impossibili da ottenere».
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