L'intervista
domenica 25 Giugno, 2023
di Lorenzo Fabiano
«Ed ecco quindi Coppi, dunque, in lotta in una delle ore più gravi della sua vita; un piccolo uomo, un fragile uomo che lotta, solo, contro il magico temibile gigante della natura…Adesso è lì, nella solitudine disperata del proprio sforzo, che riprende il suo destino per la gola. Fausto vince, è ancora il più forte di tutti». Così scriveva Orio Vergani sul Corriere della Sera il 2 giugno del 1953, all’indomani dell’impresa che il Campionissimo firmò sui 48 tornanti dello Stelvio andandosi così a prendere, da «solo uomo al comando», il suo quinto Giro d’Italia, record che nella mitologia del pedale condivide con Alfredo Binda e Eddy Merckx. Ieri (sabato 24 giugno) a Trafoi la celebrazione della sfida con Keblet. Ed era presente anche il figlio di Coppi.
Qui, settant’anni dopo sui tornanti del mito: cosa significa per lei, Faustino Coppi, questa giornata?
«È bellissimo. Partecipo sempre con grande piacere alle manifestazioni dedicate a mio padre. Quando mancò avevo quattro anni e mezzo, conservo dei flash di ricordi in famiglia: facevo colazione vicino a lui e poi aspettavo che tornasse a casa dagli allenamenti. Le sue imprese sportive le apprendo tuttora dai racconti di tantissima gente che mi mostra un grande affetto».
Faustino e il ciclismo…
«Non ebbi modo di avvicinarmi al ciclismo, ma di sicuro non avrei corso. E poi il cognome che porto sarebbe stato troppo ingombrante in sella a una bicicletta. Bartali e gli altri campioni che hanno corso con mio padre mi hanno sempre voluto un gran bene. Aggiungo una cosa…».
Prego.
«Mio padre aveva una predilezione per Jacques Anquetil, così pure io tifavo per lui».
L’ultimo ricordo che ha di suo padre?
«Quando era malato e lo vennero a prendere a casa per portarlo all’ospedale di Tortona. Mentre lo portavano giù dalle scale, fece cenno ai barellieri di fermarsi davanti a me: “Ricordati di non fare arrabbiare la mamma” mi disse».
La vita di sua madre è stata una cima Coppi…
«Direi proprio di sì. Tra un sacco di problemi si ritrovò da sola a tirare su un figlio. Fece da madre e da padre: era una donna molto tenace che sapeva ottenere quello che voleva. Nonostante non fosse permesso alle donne di seguire la carovana del Giro, lei la seguiva. E la Gazzetta dello Sport pagava le multe».
Quando sentiva parlare di «Dama Bianca» come reagiva?
«Non le piaceva (sorride, ndr), poi si abituò. A chiamarla così fu un giornalista francese de L’Equipe, Pierre Chany, a una tappa del Giro d’Italia a St Moritz. Era vestita di bianco, e non sapeva come si chiamasse».
«Con la morte di mia madre, mio padre è morto di nuovo»: parole sue.
«Eh già, perché tutto ciò che so di mio padre, me lo raccontava lei ogni giorno».
Lei è nato a Buenos Aires…
«Così mi fu permesso di portare il cognome di mio padre: fui iscritto come figlio di Fausto Coppi e Giulia Occhini. Ho portato anche il cognome Locatelli (il primo marito di Giulia Occhini, ndr) fino al 1978, all’introduzione del nuovo diritto di famiglia. Ho dovuto affrontare due cause, la prima di disconoscimento da parte di Locatelli, la seconda di riconoscimento da parte di mia madre che venne a testimoniare».
Il suo rapporto con Marina Coppi, la figlia di suo padre avuta dal suo primo matrimonio?
«Abitavamo entrambi a Novi, ma non ci frequentavamo. Ho trovato delle foto di mia sorella Lolly (i figli dal matrimonio di Giulia Occhini con Locatelli: Maurizio e Loretta, detta Lolly, ndr) che giocava con lei. Abbiamo costruito un bel rapporto: nel 1997 partecipammo insieme al premio della Gazzetta Bici d’Oro Fausto Coppi, invitati dal direttore Candido Cannavò».
E lei cosa diceva ai suoi due figli per spiegare chi era loro nonno?
«Che era un uomo gentile. Credo mai abbia alzato la voce. Anche per loro è stato come per me: hanno capito chi era il nonno dai media e dai racconti della gente: un po’ alla volta hanno capito chi fosse e cosa abbia significato per tante persone».