L'intervista
sabato 27 Luglio, 2024
di Francesco Barana
Schivo com’è, Renzo Furlan, non è tipo da vendersi. Poca immagine, molta sostanza: «Sono pur sempre uno cresciuto a Cimetta di Codogné, profondo Veneto, preferisco lavorare che fare il fenomeno» sorride il coach trevigiano, 54 anni, allenatore di Jasmine Paolini, numero 5 del mondo e rivelazione del tennis femminile mondiale in questo 2024 dopo la doppia finale Slam al Roland Garros e Wimbledon. Epperò il cursus honorum di Furlan è di quelli che pesano: da giocatore, a metà anni Novanta, è stato numero 18 del mondo ai tempi di campionissimi quali Sampras, Agassi, Ivanisevic, Becker, Edberg, Chang, Stich, Muster. Ha battuto Lendl e Chang e gli italiani lo ricordano per le epiche partite di Coppa Davis con Gaudenzi e Pescosolido nell’Italia di capitan Panatta. Da allenatore ha guidato, su espressa richiesta di Djokovic, l’accademia della federazione serba dal 2016 al 2020, ha portato Francesca Schiavone a vincere al Roland Garros e adesso Jasmine Paolini – da oggi impegnata alle Olimpiadi di Parigi – alla quale pochi credevano, nel gotha internazionale.
Eppure, Furlan, in un’epoca in cui i coach del tennis sono diventati visibili, di lei si parla poco…
«Guardi, per quello che è il mio carattere si parla già abbastanza (risata, ndr). Sa, io sono uno introspettivo, riflessivo, anche se non timido. Mi piace mettermi da parte per osservare e riflettere, non amo granché le luci della ribalta, preferisco il basso profilo. Ero così anche da giocatore…».
Era un oscuro lavoratore che è arrivato in top-20 in un’epoca di fenomeni…
«Ero concreto, senza però scadere nell’eccessiva umiltà, altrimenti nel tennis non vai da nessuna parte. Sapevo di poter arrivare ai vertici, ma attraverso il lavoro. Ero molto competitivo, un agonista. A 16 battevo tutti i miei connazionali di pari età più forti, lì capii che avrei potuto farcela».
Lei è stato il primo a capire anche le reali potenzialità di Jasmine Paolini…
«Abbiamo iniziato nel 2016, part-time poiché lavoravo già con la federazione serba. Jasmine mi aveva cercato quando avevo appena firmato il contratto come direttore tecnico del settore Under 20…».
La volle Djokovic a Belgrado.
«Mi chiese di seguire i giovani tennisti serbi, mi diede a disposizione otto campi del suo circolo. Nel 2020 però ho chiuso e ho preso a tempo pieno Jasmine».
Ed avete cominciato la scalata al ranking, fino all’exploit degli ultimi mesi…
«Credo di essere un allenatore con un buon bagaglio di esperienza. Studio molto, mi piace il tennis a 360 gradi, guardo molto i coach che ritengo più bravi di me e vedo tanti giocatori da cui trarre ispirazione…».
Ha detto che per la Paolini ha preso a modello anche Jannik Sinner…
«Sì, lui è un esempio per abnegazione, cura del dettaglio, ma anche sul piano tecnico è interessante studiarlo nella prospettiva di Jasmine, sebbene abbiano caratteristiche di gioco diverse. Però nel gesto tecnico che accompagna il colpo e che gli permette di imprimere una velocità pazzesca alla palla, sugli appoggi, i caricamenti e nelle rotazioni qualcosa gli abbiamo preso. Poi con Jasmine in questi anni abbiamo molto curato la parte tattica, su cui lei era un po’ deficitaria. Mentre era già molto forte sul piano tecnico e fisico, quelle doti le abbiamo implementate e perfezionate. Ed è sempre stata una combattente. Poi lei si affidata a me al 100% e questo ha fatto la differenza».
Quindi nell’epoca ipertecnologica, alla fine è sempre l’anima il motore di tutto?
«L’empatia. Vedo colleghi che allenano allo stesso modo qualsiasi giocatore o giocatrice, esiste il loro tennis e basta, mentre ti devi modulare a seconda della persona che hai davanti. Se crei feeling poi con le donne vai ancora meglio, perché sono più toste degli uomini. Con Jasmine piuttosto le difficoltà sono state altre all’inizio».
Quali?
«Per un allenatore è più difficile migliorare una giocatrice di qualità rispetto a una modesta, con la quale paradossalmente hai più margine. Mentre se ti trovi un talento che non ha sfondato devi soffermarti più a lungo nel cercare di capire cosa fino a lì non ha funzionato nella sua carriera».
Qualche mese fa, prima del suo exploit, ci diceva che Jasmine doveva trovare continuità sul piano mentale. Detto e fatto…
«Sì, ma al di là delle tue visioni poi è l’atleta che trova dentro di sé quella maturazione. E sono i risultati che ti portano al salto di qualità mentale, non viceversa. Mi spiego: Jasmine a Parigi ha cominciato a vincere e così ha trovato una coscienza di sé maggiore. Poi questo stato mentale se l’è portato nella trasferta londinese, a Eastbourne e Wimbledon. Ma, sono sincero, non mi aspettavo una doppia finale Slam consecutiva e forse non se lo aspettava nemmeno lei. Ma adesso dobbiamo proseguire su questa strada».
Paolini ha riportato in alto il tennis femminile italiano dopo l’epoca d’oro di Schiavone, Pennetta e Vinci. Eppure il tennis maschile tende a monopolizzare le attenzioni…
«È normale, coi maschi stiamo vivendo la miglior fase storica di sempre. Abbiamo il numero uno al mondo, Sinner, una cosa incredibile se ci pensiamo. Poi Musetti, Arnaldi, Darderi, Berrettini e tanti altri bravissimi giocatori. Ma Jasmine viene comunque celebrata: lei ha conquistato il pubblico perché è vera, solare, immediata, ispira fiducia e simpatia. Sorride sempre, è il suo carattere».
Il tennis italiano non conquista una medaglia ai Giochi da cento anni. Con Musetti e Paolini, ma senza Sinner, si può fare?
«Me lo auguro, anche se il torneo olimpico è sempre particolare. Si deve ragionare di partita in partita. Io feci i quarti nel ’96 ad Atlanta, spero che loro possano superarmi».
Quanto pesa il forfait di Sinner?
«Tanto, sia per i Giochi, che hanno perso il numero 1, che per l’Italia, che aveva un’altissima probabilità di andare a medaglia. Credo che a Sinner la rinuncia sia pesata tantissimo, so che ci teneva molto, ma giocare a Parigi non al 100% avrebbe rischiato di compromettergli il resto della stagione, a partire dalla prossima trasferta americana. Canada, Cincinnati e Us Open saranno per lui determinanti per restare numero 1 e tenere dietro Alcaraz».
Ma Furlan in futuro si vede capitano di Coppa Davis?
«Non è mai rientrato nei miei progetti. È un ruolo difficile e in Davis la differenza la fanno sempre i giocatori. Ci andai vicino nel 2003, quando ancora giocavo, l’Italia rischiava di retrocedere in serie C, ma si salvò e per fortuna Barazzutti rimase al suo posto».