l'intervista

giovedì 20 Marzo, 2025

Ferruccio Resta (Fbk): «L’Intelligenza artificiale creerà lavoro e competenze, l’occupazione sarà di qualità»

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Il presidente della Fondazione Bruno Kessler: «Siamo davanti a una rivoluzione paragonabile a quella degli anni Novanta, scattata con l'avvento di internet»

Le reazioni al tema oscillano solitamente fra tecnopanico, ossia la paura che la piena digitalizzazione sostituisca il lavoro delle persone, e costruzione immaginifica di ciò che sarà. Ma tra macerie e androidi c’è la via mediana della realtà, già in atto. E alla domanda, secca, sulle competenze del futuro, Ferruccio Resta risponde senza esitazione: «L’intelligenza artificiale creerà occupazione». Di più. Il presidente della Fondazione Bruno Kessler indica come le competenze digitali, unite alle trasformazioni dei processi via via sempre più demandati alle macchine, saranno la svolta nel miglioramento qualitativo del lavoro (e delle esistenze). Sia nella riduzione dei carichi, meno gravosi sul corpo utilizzato un tempo come unico strumento produttivo, sia nell’alleggerimento burocratico, che allaccia intenzioni creative e strategie per rimanere competitivi. Tuttavia per governare il cambiamento in atto, spiega ancora Resta, le imprese devono cambiare approccio. «I dati devono essere messi al centro», avverte.

Presidente, partiamo dalla fine: l’intelligenza artificiale creerà occupazione o viceversa soffocherà l’esistente?
«La risposta è che creerà occupazione, senza se e senza ma. Lo farà spostando certi lavori su altro. È accaduto nella storia in qualunque rivoluzione industriale. Potremmo sintetizzare che gli effetti principali saranno due. Il primo è che l’essere umano lavorerà con maggiore qualità. Pensiamo a un dato di fatto: mio padre lavorava sempre il sabato, oggi è pressoché festivo. Ancora: quando ero bambino i lavori erano perlopiù ripetitivi, con un affaticamento importante; oggi viceversa l’automazione ha spostato peso e ripetitività sulla macchina. Naturalmente tutto ciò significa che mediamente è e sarà richiesta maggiore competenza. Ed ecco il secondo effetto, che è un bene: competenza significa cultura, formazione, specializzazione».

Quali sono le competenze trasversali che diventeranno sempre più rilevanti?
«Nei giorni scorsi un quotidiano italiano è uscito con una copia cartacea disegnata dall’AI in cui il giornalista fa le domande e, se ci pensiamo, la professione giornalistica si è sempre distinta per la capacità di fare domande anziché sullo scrivere cose di altri. Quindi anche questa iniziativa la trovo coraggiosa: anche un perimetro che sembra essere quello più attaccato troverà sempre spazio. Faccio degli esempi: se dobbiamo far sì che le tecnologie riducano quel lavoro che dà poco valore aggiunto, immaginiamo gli effetti in un ospedale. Qui c’è la figura preziosissima per la cura del paziente, l’infermiere, che dedica moltissimo tempo a fare attività che un robot a guida autonoma a visione potrebbe fare mentre il personale esperto potrebbe supportare il paziente bisognoso di maggiore supporto. Ma lo stesso vale nell’industria: molto tempo è lasciato a compilare modulistica, inserire dati, pianificare azioni e magari meno tempo a vedere qual è l’evoluzione del consumatore. Ecco: se noi impieghiamo le tecnologie nel toglierci la parte a basso valore aggiunto rendendoci patroni delle scelte decisive, riusciamo a essere competitivi e rimanere sul mercato».

Ci sono già delle figure che il mercato cerca ma non si trovano?
«Qui c’è un tema sia di domanda sia di offerta: tutti hanno la consapevolezza che le tecnologie digitali segneranno il mercato e le opportunità di business, ma poi raramente riescono a dotarsi di piani per adottarle al meglio. Di pari passo, chi forse ha le competenze, i giovani, non hanno la maturità professionale per andare oltre al problemi solving e arrivare al problem setting. Quindi le imprese sanno che è necessario adottare nuove tecnologie ma manca la prontezza, anche nell’offerta».

Quali competenze digitali saranno fondamentali nei prossimi 5-10 anni, considerando l’evoluzione dell’intelligenza artificiale?
«Io penso che tutte le competenze avranno un’anima digitale: non ha più senso assumere uno storico che non si doti di strumenti digitali, per fare un esempio. È un processo pervasivo e lo sarà in qualsiasi professione. La trasformazione non è più e non solo digitale, è data driven, ossia guidata dai dati. E per farlo servono competenze. Lo stesso vale per la sostenibilità: ha senso avere un unico esperto o tutti dobbiamo interiorizzare il cambiamento? Credo la seconda, altrimenti si creano silos».

Se questa è la quarta rivoluzione industriale: dove ci porterà il suo compimento?
«Ci porta a disegnare i rapporti di forza tra le imprese, le società e le persone. Se torniamo agli anni Novanta, la rivoluzione di Internet ha ridistribuito il valore: le imprese stesse sono cambiate così come il peso delle nazioni. Sono diventati sempre più grandi, in termini di peso geopolitico, i Paesi che producevano chip e silicio. Di pari passo sono cambiate le destinazioni e i luoghi scelti dai talenti, che si muovono. Quindi ci sarà una nuova ondata: l’intelligenza artificiale è ancora una tecnologia democratica, con poco si può avere un impatto importante».

E la parabola di Deepseek in effetti lo dimostra.
«Serve però un ecosistema che promuova il cambiamento, un dottorato di ricerca in Fbk potrebbe fare molto, per dire. E oggi siamo pronti a svolgere un ruolo chiave».

Ma le imprese sono pronte al cambiamento?
«Le nostre imprese, italiane ed europee, sono pronte? La risposta è no. O meglio: se non hanno nel loro cda un punto fisso all’ordine del giorno dedicato a come valorizzare i dati, allora non stanno cogliendo l’occasione perché non hanno avviato un processo per valorizzare i dati. L’AI non è solo chatbot, è un abilitatore con cui possiamo fare tutto: ottimizzazione degli scarti, per esempio. Chiaramente dobbiamo avere coraggio di cimentarci nelle nuove tecnologie».