la storia
martedì 10 Ottobre, 2023
di Sara Alouani
Nakba significa «disastro, catastrofe, cataclisma». Un evento tragico e repentino che sconvolge l’esistenza di una comunità. Con questo termine i palestinesi da 75 anni indicano le manifestazioni di lutto e di dolore che ogni 15 maggio ricordano l’esodo del 1948 quando improvvisamente la Palestina smise di essere solo la loro terra e più di 700mila arabi palestinesi dovettero abbandonare i loro villaggi e le loro città iniziando una vita di peregrinazioni oppure rimanendo nella propria terra che ancora oggi non viene riconosciuta come stato palestinese da alcuni stati, tra cui l’Italia e gli Stati Uniti. I rifugiati e i loro discendenti frutto di quell’esodo sono stati quantificati dall’UNrwa in oltre 5 milioni di persone. Da quel 15 maggio del 1948 sono passati 75 anni e per il popolo palestinese è cambiato poco, quasi nulla in meglio, in Israele le manifestazioni di lutto e di dolore per la «Nakba» sono proibite da una legge del 2010.
Il racconto
1948 una data che Nour Ismaeil, figlio di un rifugiato palestinese in Giordania che vive a Trento, ricorda molto bene. Il nonno paterno, Jaber, nato a Jenin, conosciuta come la «città della resistenza», fu tra i primi ad entrare nel gruppo paramilitare clandestino fondato da Abd al-Qadir al-Husayni, durante la guerra arabo-israeliana.
Per 20 anni gli scontri continuarono incessanti fino al 1967, data che segna l’inizio della guerra dei sei giorni e coincide con l’esodo della famiglia di Nour. Il padre Jamil, ormai ventiduenne e già sposato con una cugina, si trovò costretto a spostarsi in Giordania «solo per qualche giorno», così avevano annunciato i leader di 22 Paesi arabi che, avendo programmato un attacco «risolutivo» allo Stato di Israele, avevano chiesto ai palestinesi di lasciare le proprie abitazioni. «Mio padre insieme ai suoi genitori, sei fratelli, moglie e figli, ha camminato centinaia di chilometri fino alla Giordania senza portare con sé alcun avere. D’altronde, era stato chiesto loro di spostarsi in modo temporaneo e, essendo a piedi, non si erano appesantiti con valigie e vestiti». Le cose, però, non andarono come previsto dal piano arabo. L’aviazione egiziana venne annientata e le piste di decollo vennero distrutte dagli israeliani, secondo alcuni, grazie a una spia araba che allertò dell’attacco imminente. A quel punto la famiglia Ismaeil non sarebbe più potuta rientrare in patria. Stabilitisi in Giordania, contro la loro volontà, ricevettero tutti un documento giordano per accamparsi con le tende nel deserto al confine con l’amata Palestina.
Ma facciamo un passo indietro nella nostra storia. Jamil, nel 1967, in quanto primogenito si trova a dover partire per provvedere alla famiglia rimasta in Giordania, senza alcun tipo di prospettiva. Arriva a Beirut a piedi e da lì decide dapprima di spostarsi in Europa, poi, avendo capito che era irraggiungibile, parte per il Kuwait. Qui inizia una carriera da meccanico, e in pochi anni si arricchisce grazie al crescente movimento nel mercato del petrolio negli Emirati Arabi e riesce a comprare un appartamento per i familiari rimasti in Giordania. È proprio durante la sua permanenza in Kuwait che Jamil conosce Nadia, la mamma di Nour, un’egiziana fuggita dal suo Paese d’origine con la madre che aveva divorziato. Dopo pochi anni dalla nascita del loro primogenito, però, la loro relazione frana e Jamil, con l’avvento della guerra del Golfo, rientra dalla numerosissima famiglia in Giordania.
«Credevano ci saremmo dimenticati da dove veniamo»
Nour, cittadino giordano, naturalizzato italiano, nato in Kuwait con sangue palestinese, combatte per la sua terra dal Trentino ma al momento non se la sente di andare in Palestina anche se vorrebbe tanto poter conoscere quella che per lui è casa: «Se vado non torno più –ammette con aria un po’ ironica e continua– i check point sono molto severi. In aeroporto vengono setacciati anche i social, i profili Facebook, Instagram per vedere se in qualche modo i viaggiatori supportano la causa palestinese. Io verrei bloccato nell’immediato». E così dicendo mostra la sua collana coi colori della bandiera a dimostrazione che la Palestina è sempre e comunque con lui. Nour oggi ha tre figlie, una delle quali ha chiamato Jenin, proprio come la città natale del nonno e del papà. Una quarta generazione di palestinesi, figli della Nakba che rivendicano la loro cittadinanza nonostante quella cittadinanza non potrà mai essere riconosciuta, perché la Palestina non esiste. «Mia figlia maggiore – conclude Nour – quando le chiedono da dove viene risponde Palestina. Poi dice Italia e, per ultima, Giordania. Dopo la Nakba gli israeliani credevano che le generazioni successive si sarebbero piano piano dimenticate delle loro radici. Invece eccoci qua, non ci dimenticheremo mai da dove veniamo».
L'INTERVISTA
di Anna Maria Eccli
Violoncellista, sposata con un principe africano, gira il mondo per lavoro. Nella città della Quercia ha deciso di comperare un rifugio dalla vita frenetica parigina. Proprio accanto alla residenza per cui i suoi avi si indebitarono