La protagonista
venerdì 28 Giugno, 2024
di Alberto Folgheraiter
Parlamentare del Pd per due legislature (dal 2013 al 2022), già presidente della VII Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei Deputati, Flavia Nardelli Piccoli (1946), due figli e quattro nipoti, dopo la laurea in lettere e filosofia alla Sapienza di Roma, ha insegnato in varie scuole romane. Per più di vent’anni è stata Segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo, a Roma. Attualmente è presidente dell’Aici, l’Associazione delle istituzioni di cultura italiane (che raggruppa 172 Fondazioni).
Ma la cultura ha ancora posto in questo Paese?
«Assolutamente sì. E dobbiamo fare di tutto perché continui ad averlo».
Che cosa significa «fare di tutto»?
«Vuol dire portare avanti un impegno condiviso. E quindi spiegare alle persone, in tutte le maniere possibili, che la cultura costa ma l’ignoranza costa ancora di più».
C’è in giro molta ignoranza, in verità, di questi tempi, in questo Paese.
«Sì purtroppo e sappiamo quanto si paga; quanto la pagheranno poi i figli; quanto la paga il Paese. Sono convinta che si debba comunque partire dalla scuola, perché rimane il nostro investimento a lungo termine più importante».
La cultura non è solo la scuola.
«Parlare di cultura vuol dire tenere insieme scuola, università, ricerca, patrimonio culturale: tutto ciò che contribuisce alla consapevolezza di cos’è cultura, cos’è complessità. Perché questo è il tema di fondo».
Parlamentare per due legislature, sotto le insegne del Partito Democratico. Che esperienza è stata, la sua?
«Molto interessante. Ho continuato a portare avanti le mie battaglie precedenti. I miei interlocutori erano più o meno gli stessi; l’obiettivo è stato quello di modificare le cose, conoscendole, da dentro. privilegiando, quindi, il lavoro in Commissione, che è quello più importante da un punto di vista parlamentare».
Che cosa ha fatto in relazione ai beni culturali?
«Siamo riusciti a fare molto. Ricorderete la strage del Bataclan a Parigi (130 morti il 15 novembre 2015): un euro in sicurezza, un euro in cultura era stata la risposta del nostro Governo. Lo si è fatto. Con un provvedimento, l’“art bonus”, si è normata una collaborazione tra pubblico e privato per sostenere il nostro patrimonio che ogni cittadino deve sentire come proprio».
Poi c’è stata la 18App.
«Il riconoscimento di 500 euro ai diciottenni da spendere in cultura. Con questi 500 auro, spesi in gran parte in libri, durante la pandemia si è salvato il mercato del libro ma si è anche fatta strada l’idea che arrivare alla maturità significa diventare consapevoli di quanto sia importante la cultura per prendere decisioni adeguate».
Perché si è fatta chiamare Flavia Nardelli, con il cognome del marito, e non Flavia Piccoli, visto che lei è figlia di Flaminio Piccoli (1915-2000) il quale, per 36 anni, fu parlamentare e il politico della Dc più noto del Trentino dopo Alcide Degasperi?
«Per il desiderio, che un tempo era normale, di valere in proprio. Essere giudicati per il lavoro che uno fa senza partire da pregiudizi né positivi né negativi. Mi sembra di esserci riuscita».
E suo papà non se ne è mai avuto a male?
«Non ha mai avuto alcun problema da questo punto di vista (ride). Direi che era orgoglioso del lavoro che facevo».
Il Trentino sembra aver dimenticato la figura di suo padre che fu segretario e presidente della Dc e pure ministro della Repubblica. Si è data una spiegazione?
«Credo che ci siano corsi e ricorsi. Momenti di appannamento della memoria e momenti di recupero. Sono convinta che la figura di mio padre tornerà, e tornerà molto forte, quando si comincerà a riconsiderare qual è stato il rapporto del Trentino con il Paese».
Un Trentino piccolo e solo.
«Il Trentino ha lavorato benissimo ma aveva bisogno di parlamentari forti a Roma che portassero avanti le istanze locali».
Infatti si diceva che l’autonomia si esercita a Trento ma si difende a Roma. Le pare che in questo momento l’autonomia sia difesa nella capitale?
«Mi pare che in questo momento manchi la consapevolezza di questo e che sull’Autonomia ci sia parecchia confusione».
A quanto consta, soltanto a Parma è stata intitolata una strada, anzi un Largo, a Flaminio Piccoli. Perché a suo padre non è mai stata intitolata una via in provincia di Trento?
«Forse non si è insistito abbastanza. Forse c’è stato anche il desiderio di ridimensionare ciò che il Trentino doveva all’aiuto nazionale».
Una damnatio memoriae, in qualche misura.
«Un po’ sì. Ma la cosa non mi preoccupa. Sono davvero convinta che un giorno le cose si rimetteranno a posto».
Vedova da qualche mese, lei ha portato le ceneri del marito, Mariano Nardelli, a Trento. Oltre agli affetti più cari che rapporto ha mantenuto con il Trentino?
«Mio marito era trentino, era giusto che fosse qui. Io torno in Trentino sempre molto volentieri perché della storia del Trentino è fatta anche la mia storia. Vuol dire riprendere momenti, volti, percorsi su cui è intrecciata la storia della mia famiglia e mia personale».
Nei giorni scorsi lei era a Trento per moderare un dibattito (con Marco Follini e Giuseppe Tognon) sulla figura di Alcide Degasperi, promosso dalla Fondazione omonima a 70 anni dalla scomparsa dello statista trentino. Nostalgia di un centro?
«Sì, certo. Molta».
Il papà giornalista e parlamentare; un fratello (Mauro) giornalista, già caporedattore esteri di «Repubblica»; cugini giornalisti (Paolo Piccoli, Mario e Luca Rigoni). Mai tentata di intraprendere questa strada?
«No, assolutamente no. Grande consapevolezza del ruolo svolto dai giornalisti, dell’importanza che lo svolgano bene. Ma io sono sempre stata a metà fra il mondo dell’Accademia e il mondo degli Istituti di Cultura. Quelle realtà che custodiscono archivi-biblioteche, parte museale, nella convinzione che ci sia bisogno di ruoli e di funzioni complementari».
Nostalgia dello scranno a Montecitorio?
«Assolutamente no, anche perché la frequentazione con la Camera e col Senato è continua e il lavoro che uno ha svolto per tanti anni continua a svolgerlo. Da fuori o da dentro il Parlamento» .
Qual è il giudizio complessivo su questa classe politica del 2024?
(sospira) «Molto conflittuale e, purtroppo, con poca prospettiva di lungo periodo».
Perché c’è una crescente disaffezione al voto?
«Non siamo riusciti a spiegare, soprattutto ai giovani, che il diritto di andare a votare è costato tantissimo; che ha dietro una lunga storia di sopraffazioni, di esclusioni. È il diritto più importante che abbiamo. Non esercitarlo significa lasciare che altri decidano per noi».
Che progetti ha per il futuro?
«Tantissimi. Non ho ancora deciso che cosa farò da grande, si diceva un tempo».
Già, che cosa farà da grande?
«Ho moltissimi temi di cui devo occuparmi perché le Fondazioni che rappresento sono un’infrastruttura straordinaria per questo Paese. Che da va dal Piemonte alla Sicilia e che raccoglie, nella maggior parte dei casi, moltissima parte della memoria del Novecento. Quindi cercare di aiutare le Fondazioni a lavorare assieme e a costruire percorsi con la scuola, la ricerca, l’università, è un impegno di grande ambizione».