L'intervista
venerdì 29 Marzo, 2024
di Maddalena Di Tolla Deflorian
Allevamenti intensivi con indicibili violenze sugli animali, inquinamento ambientale, rischi sanitari dietro l’angolo, fiumi di denaro pubblico, lobby potenti che condizionano dietro le quinte, in modo opaco, le decisioni politiche europee, sfruttamento dei lavoratori. Tutto questo è «Food for profit», il documentario – divenuto un caso nazionale al box-office – girato in vari Paesi, in cinque anni di investigazioni, dalla nota giornalista italiana Giulia Innocenzi insieme al regista Pablo D’Ambrosi. Lo si potrà vedere a Trento al cinema teatro San Marco, martedì alle 17.30 e alle 20.45 con ospiti e moderazione, in un evento organizzato dalla Lav, associazione che ha coordinato le indagini negli allevamenti. Seguono repliche lanciate dal cinema, visto il successo delle prenotazioni, il 3, il 4, il 6.
Il documentario, prodotto in modo indipendente con un budget di circa 250 mila euro, senza pagare i due registi, si è rivelato un fenomeno di interesse nazionale. Sono già 600 le proiezioni organizzate dal basso in un solo mese in tutta Italia da sale cinematografiche, associazioni, scuole, gruppi di acquisto solidale. Ci sono già date fissate sino a novembre. La prima proiezione era avvenuta al Parlamento europeo il 22 febbraio. «All’inizio non ci aspettavamo questo grandissimo successo, anzi dicevamo “Sarebbe bello se soltanto qualche cinema ci chiedesse di proiettarlo”, e invece …», commenta Giulia Innocenzi.
Innocenzi è giornalista e conduttrice, conosciuta soprattutto per le sue indagini all’interno degli allevamenti intensivi. Lavora per Report, in Rai. Il suo libro «Tritacarne» (Rizzoli, 2017), che svela la realtà dell’industria della carne e del formaggio in Italia, è diventato un bestseller.
Cosa succede a Bruxelles? Miliardi di vite di animali, esseri senzienti, sono determinate, anche nella loro sofferenza, da lobby potenti?
«Purtroppo c’è una commistione malsana – che siamo riusciti a dimostrare nel nostro lavoro d’inchiesta – fra lobbisti, grandi attori economici del settore zootecnico e politici, che poi devono decidere su quanti soldi stanziare per gli allevamenti, anche perché ci sono eurodeputati che sono pagati dall’industria e sono molto attenti alle richieste delle lobby. Questo secondo noi è un grave conflitto di interessi che andrebbe fermato, impedendo a queste persone di candidarsi ancora al Parlamento europeo. A Bruxelles si stima che vi siano circa 25 mila lobbisti in Europa. Sono 400 miliardi di euro i soldi della Politica agricola comune (Pac), distribuiti su sette anni: la maggior parte va agli allevamenti intensivi ed è un controsenso».
Non sono mele marce quelle che mostrate, è un sistema distorto quello che il documentario denuncia?
«Assolutamente sì, lo dimostriamo. Ogni volta che esce un servizio critico tutti dicono: “È un’eccezione”, invece con un lavoro sistemico, che abbiamo fatto in diversi Paesi, diversi tipi di allevamenti e su diverse specie, emerge lo stesso schema volto alla riduzione dei costi, anche a danno dei lavoratori».
Nel documentario si evidenzia il maltrattamento degli animali e l’inquinamento ambientale. Quanto e perché succede?
«È tutta questione di riduzione di costi purtroppo. Sia gli animali che gli umani sono visti solo come bulloni di una catena di montaggio, perché i grandi gruppi devono aumentare il margine di profitto. Un sistema del genere di capitalismo duro e puro non può durare. Bisogna fermarlo anche a livello personale, smettendo di mangiare prodotti delle filiere della carne e dei derivati del latte».
Il Parlamento europeo non ha mai dato una definizione di allevamento intensivo?
«Esatto, questo permette alle aziende di continuare a giostrarsi, e ci sono perfino politici che negano che nei loro Paesi ci siano allevamenti intensivi o che vengano finanziati coi soldi pubblici».
Come viene usato nel settore zootecnico il concetto benessere animale?
«Purtroppo di fatto non vuol dire niente, il suo uso nasconde maltrattamenti di animali, vuol dire che dietro ci sono pratiche che cercano di rendersi accettabili all’opinione pubblica ma si tratta di una tortura legalizzata».
Avete già ricevuto minacce di querele e diffide: qualcuno vorrebbe fermare la diffusione delle informazioni? Vi preoccupa?
«Assolutamente sì, stiamo ricevendo diffide dalle aziende, una minaccia di querela da un eurodeputato ma perfino chi ha ospitato una nostra proiezione ha ricevuto una diffida. Ma noi non ci fermeremo, e siamo ancora più motivati. C’è stata anche a Zurigo la prima proiezione all’estero, dopo Bruxelles».
Che effetto fa questo documentario alle persone, nell’esperienza di queste settimane?
«C’è gente che mi ha mandato la foto del frigo rivoluzionato. Le persone sono inorridite dal sistema quanto dalla violenza sugli animali, tanti mi hanno detto che non sapevano».
Il documentario tocca la politica italiana?
«Ad aprile lo faremo vedere anche nei Consigli regionali di regioni chiave, come Lombardia ed Emilia Romagna. Il nostro obiettivo sarebbe adottare una moratoria sulla costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di riformare la Politica agricola comune».
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