l'intervista
giovedì 27 Marzo, 2025
Francesca Borri a Trento: «Dal 7 ottobre nessun giornalista è entrato a Gaza. Abbiamo fallito il racconto della guerra»
di Sara Alouani
L'inviata di guerra interverrà oggi alle 20.30 alla fondazione Demarchi: «La Siria con gli islamisti? Voglio fidarmi di Ahmad al-Shara»

Dalla Siria alla Palestina, passando per l’Iraq, Francesca Borri ha vissuto sulla propria pelle gli orrori delle guerre. Giornalista freelance, firma di Repubblica, collabora con Internazionale, Al Jazeera e Yedioth Ahronoth. I suoi articoli sono stati tradotti in 17 lingue e questa sera, alle 20.30, porterà la sua sconfinata esperienza alla fondazione Demarchi di Trento.
Borri, si è parlato molto di Siria dopo il crollo del regime di Assad. Quale è la situazione ora?
«È un momento molto complicato. Siamo difronte a un Paese interamente da ricostruire non solo materialmente ma anche socialmente. Più della metà dei siriani sono sfollati o rifugiati all’estero. Sono persone con competenze, energie, risorse e vorranno avere un ruolo in questa nuova Siria. Il primo passo è la ripresa dell’economia. La vittoria di Ahmad al-Shara, di Hayʾat Taḥrīr al-Shām, è la vittoria di tutti i siriani che hanno pagato un prezzo indicibile per rovesciare Assad. Non dobbiamo considerare il nuovo governo come islamista ma è finalmente il governo dei siriani».
Nell’ultimo mese la Siria è stata teatro di un terribile massacro dove sono morti oltre mille civili: cosa è successo?
«C’è questa minoranza alawita che è identificata con il regime di Assad. A dire il vero, tutti i siriani che non si sono opposti ad Assad vengono considerati complici. La scintilla in questi casi può arrivare facilmente da un lato o dall’altro: c’è chi teme la vendetta e c’è chi crede di farsi giustizia. Il problema è che esistono ancora milizie che non sono sotto il comando del governo centrale; quindi, insieme all’economia l’altra priorità sarà creare un esercito unitario e da questo punto di vista l’intesa con i curdi è molto importante. Mi aspetto altri incidenti di questo tipo».
Sono escalation che mirano ad eliminare i filo-assadisti?
«Questo non è un disegno del nuovo governo. È stata creata una commissione d’inchiesta e i responsabili, spero, saranno puniti. Nei confronti dei siriani, però, dobbiamo avere molta comprensione, perché stanno vivendo un momento molto critico. La Siria resta un risiko in balia delle decisioni di potenti da Israele alla Turchia passando per gli Stati Uniti. Erdogan ha liberato la Siria ma è un uomo imprevedibile e niente mi garantisce che domani possa cambiare idea. Questo è molto pericoloso».
La Siria ora è in mano ad islamisti. È una nuova primavera araba destinata a fallire?
«Tempo fa, ho letto un memorandum che Erdogan ha consegnato ad Ahmad al-Shara: mi ha colpito una formula che chiedeva di passare dalla “sharia law alla sharia politics”. Sostanzialmente, l’obiettivo è creare un sistema politico inclusivo, islamista e partecipativo. Dal 2013 in poi c’è stata un evoluzione dei movimenti islamisti, dai talebani a Hamas. Hanno capito che, nel momento in cui arrivano al potere, o si trovano davanti ad una reazione e vengono rovesciati oppure governano malissimo, perché non sono in grado di gestire la situazione catastrofica. Devono formare coalizioni».
Il governo siriano è transitorio?
«Devono imparare a misurarsi con forze di tipo diverso. Al momento non ho certezze ma voglio fidarmi di Ahmad al-Shara».
Ultimamente ha pubblicato un’intervista con il sindaco di Gaza, Yahya Sarraj, che assieme ad altri tecnici ha messo a punto un piano per la sua città: il Gaza Phoenix. Che cosa è?
«È un piano, implementato e finanziato da esperti appartenenti alle università più prestigiose del mondo (al quale collaboro anche io) che consente ai palestinesi di restare dove stanno contrariamente a tutte le altre proposte che prevedono l’esodo del popolo. Il piano di sviluppo ridisegna Gaza: dal palazzo di governo, alle università fino al dissalatore dell’acqua».
Di quanto tempo ci sarà bisogno?
«Gli urbanisti dicono che per un quartiere ci vorranno 45 anni. Temo che andranno via tutti».
Lei racconta storie a km 0. Quale è la storia che l’ha più toccata?
«Era il mio primissimo giorno in Siria come freelance. Ad un certo punto l’area di Aleppo è stata attaccata e ci siamo rifugiati in questo scantinato. Indossavo il giubbotto con la scritta “Press” e un uomo molto anziano uscì per farmi spazio e mi disse: “Tu sei più importante di me, così il mondo saprà”. Nella mia mente conservo l’immagine di quest’uomo che si incammina sullo stradone del centro di Aleppo nella direzione del fumo nero. Ripensandoci, non credo di aver meritato quel posto nello scantinato. Abbiamo fallito la Siria così come abbiamo fallito Gaza. L’idea che dal 7 ottobre nessun giornalista sia entrato nella Striscia mi fa capire che nessuno di noi ha voluto rischiare la propria vita per quel popolo».