L'intervista
domenica 10 Marzo, 2024
di Francesco Morandini
Streghe, tarantolate, brigantesse, coraggiose, indomite e titaniche, sono le femmine ribelli che Francesca Croci, poetessa e femminista, bolognese di nascita, ma fiemmese d’adozione, racconta nei suoi versi per restituire dignità e spessore umano a figure femminili che essa stessa ritiene spesso mistificate o dimenticate, a volte erroneamente «celebrate», come accade con le streghe nostrane che, dice, «non erano tutte belle e buone». Donne guerriere che spesso sono riuscite ad emanciparsi con la ribellione, il delitto e che ha raccontato in biblioteca a Cavalese alla vigilia della Festa della Donna all’interno della rassegna «La biblioteca è poesia».
Francesca, alle brigantesse c’è arrivata partendo proprio dalla poesia. 34 anni fa ha conosciuto Davide in una discoteca a Moena, ha lasciato il lavoro in banca a Bologna e si è trasferita a Predazzo. Quando ha iniziato a scrivere poesie?
«Come tutti scrivevo poesie da giovane, ma in realtà scimmiotti i poeti che ti piacciono, non sei tu. Nel 2012 a 50 anni ho avuto una grossa crisi e un amico di Bologna mi ha detto: “ma fai qualcosa, mettilo da qualche parte questo dolore, capitalizzalo”. Ho iniziato a scrivere in prosa, ma scrivevo cose che gli altri non capivano, rappresentavo le cose con simboli e metafore, curavo le parole in maniera maniacale. A quel punto ho detto: ma se io cerco il ritmo, se cerco la parola che mi svegli dei mondi, è la poesia quello che mi serve e che serve nei momenti di grande subbuglio».
Così inizia a scriverne di poesie, e tante, partecipa a dei premi, ne vince subito uno e le pubblicano la silloge «Femmina spiaggiata». Alcuni anni dopo dà alle stampe la raccolta «Streghe».
Perché le streghe?
«Io ho una base di militanza femminista, ma non sapevo nulla dei processi alle streghe di Fiemme. Ho iniziato a leggere, informarmi e mi sono detta: voglio addolcire la morte di queste donne. Io scrivo poesie intimiste e quindi mi son chiesta: cosa posso fare? Ho studiato tutto ciò che ho trovato. L’ho lasciato decantare e poi ho immaginato una sorta di antologia di Spoon river delle streghe. Poiché si sa poco, solo quello che hanno detto gli aguzzini o le loro narrazioni spesso inventate sotto tortura, ho provato a immaginare chi erano e a scrivere le loro poesie ispirandomi a fatti accaduti: per esempio quella morta in cella e buttata nell’Avisio, un’altra uccisa perché figlia di una strega».
Ma non si è fermata alle streghe.
«Ho iniziato a pensare a tutte le donne che potevano dar fastidio e ad altre donne “scomode” o che comunque hanno cercato di uscire dal controllo. Leggendo Ernesto De Martino ho scoperto il fenomeno del tarantismo, donne nubili in età da marito, povere contadine col destino segnato che si isolavano dalla realtà salvo avere questi grossi sfoghi in cui poter far di tutto durante il rito coreutico».
E poi? Ha detto che è letteralmente inciampata nelle brigantesse.
«Si sono inciampata in un libro di Eugenio Bennato che ne parlava e ho completato il libro “Streghe” con quattro poesie su Francesca La Gamba cui hanno ammazzato i figli, la Michelina De Cesare che ha sparato al marito che gli aveva ucciso il figlio neonato perché piangeva e rischiava di farli scoprire, e Ciccilla che ha ammazzato la sorella con l’ascia. Una poesia l’ho dedicata anche all’accabadora che non è una strega, ma che veniva incaricata dalla società rurale sarda di praticare l’eutanasia ai malati incurabili. Erano donne isolate, spesso vedove, sole».
Poi è arrivato il terzo libro, Canto di femmina briganta, tutto dedicato alle brigantesse.
Un amico di Salerno con cui ho fatto un lavoro sulle streghe a Padova, mi ha sollecitato ad approfondire. Ho avuto la fortuna di conoscere Maria Scerrato che mi ha aperto un mondo, il libro di Valentino Romano, una sorta di censimento sulle brigantesse conosciute, e quello di Maurizio Restivo. Ho voluto dare voce a queste donne, spesso analfabete, lavorando sull’empatia. Cosa avrei detto io se avessi avuto quel vissuto? Ne ho scelte 20 che mi permettevano di aprire degli squarci diversi sul fenomeno del brigantaggio femminile».
Lei ha scritto e presentato quattro libri, partecipato a performance teatrali in valle e anche in Veneto, ma su temi non agevoli. Qual è stato il riscontro?
«Poco in valle, accade se l’argomento non è d’interesse locale, e se non sei radicato. D’altro canto, la poesia è ostica, se vedono un incontro di poesia non ci vanno. Sulle streghe è diverso. Ho però avuto la fortuna di conoscere un collettivo femminista di Trento, “Peccaminose”, con cui parliamo di cultura, letteratura, ma dopo il Covid è andato tutto un po’ morendo».
Dopo le brigantesse cosa ha in serbo?
«Ho due tarli, ma non so se sono alla mia portata: una è Giovanna d’Arco, ma è talmente monumentale… L’altra me l’hanno sollecitata: devi finire la trilogia, streghe, brigantesse, mancano le terroriste. È un argomento scottante, troppo recente. Però mi chiedo: queste donne, rosse o nere non importa, che storie hanno avuto per arrivare a quel punto, perché una donna borghese fa questa scelta? Ho un po’ paura ad affrontarlo, mi sento meno libera. Però c’è da dire che la poesia è un buon paravento perché le trasfigura. Vedremo».