L'intervista

domenica 30 Giugno, 2024

Francesca Mannocchi racconta Gaza: «Ignavia inaccettabile di fronte al massacro di civili»

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La reporter di guerra è intervenuta oggi al festival Trentino 2060 (Borgo Valsugana). «Cosa ho visto in Israele? La società è radicalmente cambiata»

Gli ultimi due anni sono stati, per l’attenzione pubblica europea e occidentale, un biennio di guerra. L’invasione russa dell’Ucraina prima e l’offensiva israeliana a Gaza poi hanno squarciato quel velo di Maya con cui in Europa a lungo ci si era convinti che le guerre fossero una memoria del passato. Non solo, l’impegno economico dei Paesi dell’Unione europea in sostegno dell’Ucraina ha anche reso evidente cosa significhi vivere in un’economia di guerra, con risorse che, destinate agli armamenti, hanno iniziato a scarseggiare per interventi come welfare e politiche sociali. Ma in realtà «la guerra non se n’è mai andata, è semplicemente tornata a bussare alle nostre porte», dice Francesca Mannocchi. La scrittrice, giornalista e reporter di guerra da anni racconta i conflitti in tutto il mondo e sarà ospite oggi di Trentino 2060 in un appuntamento dal titolo «Cosa vuol dire fare la guerra». L’appuntamento è a Borgo Valsugana, alle ore 17, in piazza Degasperi.
Mannocchi, in Europa negli ultimi due anni si è riscoperta la guerra, ma la verità è che non se n’era mai andata?
«È assolutamente così, e in questa domanda c’è tutta la frustrazione che sento negli ultimi due anni e mezzo. Frustrazione perché per l’appunto la guerra è sempre stata qui, l’unica differenza è che oggi ci ha bussato alla porta. Questo ha dissipato quell’illusione di pace in cui l’Europa ha vissuto dalla Seconda guerra mondiale ad oggi, fatta eccezione per il conflitto nei Balcani, spingendo altrove i problemi del mondo e non guardandoli. L’Ucraina ha imposto all’opinione pubblica e al nostro mestiere un ripensamento dei luoghi e dei temi. La prossimità della guerra ci ha fatto riflettere sulle nostre paure e sul tema della sicurezza degli Stati. Parlavo prima di frustrazione perché noi cronisti abbiamo testimoniato altre guerre brutali in questi anni, penso a quelle contro lo Stato islamico o ai conflitti africani, però l’attenzione alle guerre prima degli ultimi due anni semplicemente non c’era e non è che non ci fossero».
Parlando di Gaza è giusto definire «guerra» quello che sta succedendo?
«No, è più corretto parlare di offensiva militare israeliana. La parola guerra è una semplificazione con cui si intende una parte per il tutto. Dovremmo essere più attenti e bilanciati nelle parole che decidiamo di usare, soprattutto noi giornalisti, perché ogni termine che decidiamo di utilizzare veicola un’informazione precisa. Se parliamo di guerra, presupponiamo una situazione in cui c’è, tutto sommato, una parità di mezzi, strutture, impalcature istituzionali e militari tra le parti. Proprio perché questa parità non c’è, è un errore parlare di guerra tra Israele e Gaza, ma anche per Russia e Ucraina. Nel secondo caso dovremmo parlare di conflitto generato dall’invasione russa e nel primo di brutale offensiva israeliana a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre».
Lei si è recata più volte in Palestina e in Israele in questi mesi, qual è la situazione?
«Penso che la questione palestinese sia un tema che i nostri media hanno colpevolmente trascurato a lungo e che ora ci è stato imposto dal presente in tutta la sua drammaticità. Questi otto mesi di guerra sono anche questo: il riannodare i fili della storia e degli eventi. Ci fa capire che non è episodico il percorso che ci ha fatto arrivare ad oggi. A pochi giorni dall’offensiva su Gaza il Segretario generale dell’Onu Guterres diceva: “Questa cosa non accade nel vuoto”. Non lo fa l’attacco di Hamas del 7 ottobre e non lo fa nemmeno la brutale offensiva israeliana di questi mesi. Quello che ho visto sul posto è un radicale cambiamento della società israeliana, che secondo me è il tema dei temi e che dobbiamo raccontare senza pregiudizi. Dobbiamo capire come sia possibile che una società, per quanto sconvolta dal 7 ottobre, possa tollerare che in nome di quell’attacco si possano uccidere decine di migliaia di innocenti».
Parlando di Israele hanno fatto discutere i contenuti social diffusi da tanti giovani militari mentre distruggono case e commettono atti di guerra a Gaza.
«È un tema che mi ha fatto riflettere molto e su cui mi sono confrontata con un sociologo militare israeliano. Vediamo cose che non avevamo mai visto prima perché la tecnologia ce lo permette. Credo che le cose succedessero anche prima, solo che non le vedevamo. In questo senso l’accesso ai contenuti dei social media dovrebbe svegliare ancora di più le nostre coscienze. Oggi non possiamo non vedere quello che sta succedendo a Gaza e questo rende ancora più imperdonabile l’ignavia».
I social hanno avuto anche un ruolo rilevante nella partita dell’informazione su questo conflitto, offrendo un punto vista all’inizio quasi assente dai media occidentali?
«Non c’è dubbio e quello che sta succedendo nei campus universitari europei e americani ci parla di una generazione che si informa in un altro modo e che, giusto o non giusto, si fida poco dei media tradizionali, preferendo cercare testimonianze dirette sui social. Testimonianze che poi è importante verificare, ma non c’è dubbio che c’è stata, a differenza che in Ucraina, una diffidenza dei media occidentali verso le fonti palestinesi solo perché palestinesi. Una diffidenza che sulle fonti ucraine, giustamente, non c’era. A Gaza sono stati uccisi 130 colleghi che hanno messo a rischio la loro vita pur di raccontare il massacro. Una recente inchiesta ha messo in luce che alcune decine di queste morti sono state premeditate, che sono stati uccisi proprio in quanto giornalisti, in quanto testimoni. È evidente che la nostra sensibilità non è tarata su questo conflitto».
C’è islamofobia in questo?
«Non c’è dubbio, forse è il motore di tutto».
Secondo lei è ancora percorribile la soluzione a due Stati?
«Sono tendenzialmente pessimista, non per gli esseri umani e la popolazione, ma perché questi otto mesi di offensiva hanno tragicamente indebolito il ruolo delle istituzioni sovranazionali a cominciare dall’Onu, rivelando l’inefficacia degli sforzi diplomatici. Sono pessimista, quello che ho visto in questi otto mesi è che le persone che credono nella convivenza pacifica stanno diminuendo da ambo le parti. Penso anche che la storia sia fatta di tempi lunghi, di processi complessi. Dobbiamo uscire dal presente e darci obiettivi di pace che coinvolgano più generazioni, anche tre o quattro».
L’informazione in questi conflitti è sembrata anch’essa uno strumento in guerra, è così?
«Sì, l’informazione ha sempre fatto parte dei conflitti, è oggetto di ritorsioni e ostacoli, è sempre stato così. Non è facile avere un’informazione in purezza negli scenari di guerra, francamente non so se è possibile. Non c’è dubbio che questo sia un momento storico in cui il lavoro dei giornalisti è soggetto ad un maggiore scrutinio, siamo soggetti a una maggiore attenzione a quello che facciamo e a come verifichiamo le informazioni. Questo il potere lo sa e si è organizzato di conseguenza, quindi gli accessi a certi angoli di mondo, a certi conflitti sono molto più complicati, il controllo è più capillare e questo è un problema».
Il giornalista di guerra come trova equilibrio tra il bisogno di accesso e la necessità di mantenere la sua indipendenza?
«Credo che l’indipendenza non sia data dal non rispettare le regole di uno o dell’altro esercito. La qualità giornalistica è data dal rigore e dalla capacità analitica di raccontare ciò che si vede, ma anche ciò che ostacola il nostro lavoro. È una professione estremamente esposta e criticata. Per esempio, quando ero sul campo in Ucraina c’era chi, criticando me e altri colleghi, ci diceva: “Ma perché non andate a raccontare quello che succede in Russia?”. E la risposta semplice è che non ci davano il visto di entrata, le condizioni sono queste. In questo momento di iper-esposizione, in un contesto italiano poi in cui siamo tutti allenatori, tutti giornalisti e tutti esperti di geopolitica, secondo me è importante raccontare cosa succede e rendere chiaro che il rigore è più importante della neutralità».
Lei si è occupata molto anche di migrazioni, i continui flussi di questi anni cosa ci insegnano sulle politiche adottate?
«Avrebbero dovuto abituarci a capire che le rotte migratorie sono adattive: cambiano i tempi, cambiano i percorsi, cambiano anche le ragioni della fuga, ma non smettono di verificarsi, pur rimodellandosi. I numeri dei report ci dicono che le migrazioni non si arrestano, anzi si moltiplicano perché aumentano i motivi di spostamento. Guerre, crisi climatiche, ma anche le disuguaglianze tra il Sud e il Nord del mondo. A tutto questo continuiamo a dare una risposta politica figlia di ansie emergenziali, invece di renderci conto che per contenere gli effetti di sconvolgimenti sociali ci vogliono impegno e un lavoro lungo generazioni, non l’orizzonte stretto di un mandato di governo».