L'INTERVISTA

venerdì 19 Gennaio, 2024

Francesco Moser, 40 anni fa il record: «Quella bici l’abbiamo studiata e costruita in officina»

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Il 19 gennaio 1984 quell'ora che diventò il primo grande traguardo. Quattro giorni dopo l’altra impresa. Lo «sceriffo» ripercorre le tappe di quel momento storico: «Facemmo cambiare tutta la pista»

Un record che è rimasto per 9 anni imbattuto ma che ha tracciato un discrimine nel ciclismo contemporaneo. È quello che realizzò Francesco Moser 40 anni fa – il 19 gennaio 1984 – a Città del Messico. E che poi ripetè pochi giorni dopo fissando a 51,151 chilometri la percorrenza in un’ora. Primo ciclista ad andare oltre i 50 chilometri, rubando lo scettro ad un certo Eddy Merckx.
Moser, sono passati 40 anni da quel giorno a Città del Messico. Immaginiamo i ricordi ancora nitidi.
«E ci mancherebbe. Da dove vuole che inizi a ricordare? Perché domani (oggi per chi legge, ndr) sarebbe l’anniversario del mio primo record dell’ora, poi – il 23 – c’è stato l’altro, quello definitivo e più conosciuto».
Ha ragione Moser veda lei da dove iniziare allora.
«Beh, per provarci ero partito un mese prima per il Messico. Ricordo bene era il 26 di dicembre del 1983 e arrivammo il 27. L’appuntamento con il tentativo era programmato per il 23 gennaio. Arrivammo sulla pista del velodromo di Agustín Melgar, a 333 metri di altitudine, dove Merckx aveva fatto il suo record (49.431 km, ndr). Noi eravamo prontissimi con un’equipe di meccanici e anche di medici di prim’ordine. Era tutto pagato da Enervit, che qualche mese prima mi aveva fatto la proposta di tentare il record dell’ora».
Che impressione ebbe, una volta arrivato sul posto?
«Beh c’ero già stato, lì. Io ero su quella pista il giorno in cui, nel 1974, Ole Ritter aveva tentato di ripetersi nello stesso record. Conoscevo quel velodromo ma ci rendemmo conto che, rispetto a quegli anni, era deperito in maniera irreparabile. La pista era in legno, era stata realizzata nel 1968, figuratevi con il passare degli anni com’era marcita; non sarebbe mai stato possibile ritentare il record in quelle condizioni».
A quel punto? Sarebbe stato normale pensare di rimandare tutto…
«Figuriamoci. Ormai eravamo lì, e anche solo continuare a spostarsi sarebbe stato insostenibile; non era tutto più facile come oggi».
Giusto, quindi?
«Quindi, ci rimboccammo le maniche e ci mettemmo a restaurare la pista».
Dice davvero?
«Eh, abbiamo tolto tutto il legno e l’abbiamo rifatta in cemento, poi l’abbiamo ripassata con una resina per renderla liscia e priva di imperfezioni».
E venne il momento di provarla…
«Sì, ci svegliammo preso la mattina del 19 gennaio. C’era un’umidità incredibile e soffiava il vento. Ma non ci preoccupammo molto, quella era solo una prova, in vista del tentativo vero e proprio del 23 gennaio. Partii e le cose andarono subito molto bene, accumulavo vantaggio su vantaggio sulla tabella di marcia prevista per il record e sui passaggi di Merckx nel 1972. Provai a spingere di più perché mi sentivo bene e quando arrivai al 60esimo minuto il cronometro diceva che in un’ora avevo percorso 50.808 metri. Era già quello il record: 50, 808 km in 3600 secondi».
Poteva bastare così, no?
«Macché. Oramai da Trento e del Trentino si erano organizzati in diversi per venire a vedermi il 23 gennaio. Mi ricordo che quando la notizia arrivò a casa mi telefonò mia sorella Francesca e mi disse in dialetto “Ma alor? Dovente vegnir o no?”. “Sì, sì, vegnì valà” risposi io. Arrivarono in massa e il 23 gennaio ero di nuovo in sella su quella pista».
Il momento del record passato alla storia. Ce lo racconti, la prego.
«Quel giorno il velodromo era strapieno di gente, del posto e da ogni dove. Tanti anche i trentini, appunto, in tribuna. messicani, italiani, giornalisti, tecnici. Stavo ancor più bene di 4 giorni prima, sono salito in sella e via. Forse un po’ troppo forte ma non importava. Spingevo e dopo un’ora esatta ero a 51 km e 151 metri».
Moser, in quel momento lei è diventato un mito. Cos’ha pensato?
«Ho pensato a tutti quelli che mi avevano deriso, che non avevano preso sul serio l’impresa che avevo tentato».
La soddisfazione emerge ancora oggi dall’incedere netto delle sue parole…
«Guardi, mentre le parlo sto passeggiando qua nel museo che ho realizzato nel mio maso. Ho appeso anche i tanti articoli in cui scrivevano che stavo tentando una cosa impossibile. Li leggo ancora adesso e rido. “Vei su, tei fago veder” (vieni e te li faccio vedere)».
Quel record, però, è anche figlio non solo della sua prestazione fisica monumentale, ma anche di nuove tecnologie. Pensiamo solo alle ruote lenticolari. Che mi risponde se le dico che lei, quel giorno, ha cambiato il ciclismo?
«Ah beh, dico che è vero. Era la prima volta che una bicicletta veniva costruita in modo così performante. Le ruote lenticolari, si, ma anche le prolunghe sul manubrio per assumere una posizione ancor più aerodinamica. Guardi che la bicicletta l’abbiamo costruita noi; l’idea della ruota a forma di lente d’occhiale è stata di Dalmonte ma telaio e tutta la meccanica l’abbiamo studiata con il nostro staff e l’abbiamo costruita noi in officina. Anche gli stessi allenamenti erano cambiati per quel tipo di preparazione e poi, piano piano sono stati introdotti per tutte le gare. Il mio record, insomma, credo che abbia segnato il cambiamento di tutto il sistema del ciclismo».
E va detto che quel 51.151 le ha regalato anche qualche anno in più di carriera.
«Senz’altro. Il record l’ho fatto a 33 anni, ero più sulla via del tramonto, direi. Anche per questo c’era chi diceva che non ce l’avrei mai fatta e invece… anzi fu un anno fantastico perché poi vinsi il Giro, vinsi la Milano-Sanremo…».
Domanda d’obbligo, Francesco, 40 anni dopo il successo mondiale: c’è un corridore in cui si rispecchia?
«Fra quelli di oggi, intende? Ah, direi proprio di no. È cambiato tutto, non è più il ciclismo dei miei tempi. Oggi i corridori sono tutti specialisti in una tipologia o in un’altra, noi – ai tempi – dovevamo essere in grado di affrontare un po’ tutte le dinamiche possibili. Fra ieri e oggi è cambiato il mondo e devo dire che non riesco a trovare qualcuno che assomigli a ciò che siamo stati noi».
Oggi Moser fa solo il pensionato?
«Ah ah ah, sì. Mi dedico alla mia campagna, al mio vino e accolgo chi mi viene a trovare qui al maso».