L'intervista

domenica 5 Marzo, 2023

Francesco Moser: «Ho un nuovo amore, Mara è un’ex ciclista. Ignazio e Cecilia? Il matrimonio in estate»

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Il campione si racconta: «Io e Saronni pur di non di far vincere l’altro, lasciavamo andare il resto del gruppo. Se fossimo andati d’accordo, entrambi avremmo vinto di più»

Ci sono i campioni, pochi. Poi ci sono le icone: rare, rarissime. È un fatto gravitazionale, mica solo di palmares. Quello di Francesco Moser, peraltro, è infinito: 273 corse vinte, tra cui un Giro d’Italia, tre Parigi-Roubaix, due Giri di Lombardia, una Milano-Sanremo e una Freccia-Vallone. E, su pista, il record dell’ora. È il corridore italiano più vincente («e quello che ha indossato più volte la maglia rosa» puntualizza) e il terzo in assoluto dietro Mercks e Van Looy.

Moser ha chiuso la carriera 35 anni fa, oggi ne ha quasi 72, ma rimane un simbolo non solo del ciclismo, ma dell’immaginario collettivo. Dici Moser e il popolo, anche chi non ha mai visto una gara, sa.  «Come me lo spiego? Non me lo spiego, sono cose che non comandi tu, non le decidi, forse è il feeling che hai instaurato con la gente, come uno si comporta. Sono cose che restano» dice sornione lui, oggi viticoltore e produttore di vino nella vasta tenuta Maso Villa Warth di Gardolo di Mezzo che porta il suo nome («in mezzo alle vigne ci sono nato e coltivare la terra è sempre stata la mia più grande passione» confida), ma ancora dentro al mondo della bici come testimonial e ambasciatore.

Forse, Moser, è perché lei stato il numero uno in un periodo, anni 70 e 80, in cui il ciclismo era ancora epopea popolare?

«Allora il ciclismo era quasi come il calcio. Oggi ha ancora un suo seguito, ma è nulla in confronto ai miei tempi. Poi adesso tra corridori e tifosi ci sono un sacco di filtri, mille distanze, finiscono le corse e si nascondono nei pullman. Noi eravamo obbligati dalle squadre a stare con la gente. Mi sembrava di stare in mezzo ai leoni (ride, ndr). Per fortuna non c’erano i telefonini, altrimenti sarebbe stato un selfie dietro l’altro. Me ne chiedono tantissimi ogni volta che vado in giro, sa?».

Non dubitiamo. Anche le rivalità creano epica e posterità. Coppi-Bartali, Rivera-Mazzola, Moser-Saronni…

«Forse, ma non ne sono così convinto. Saronni non è popolare come me…».

Che stoccatina. Un duello infinito il vostro…

«Ma no, oggi siamo amici, viene spesso a trovarmi qui al maso, poi ci troviamo spesso al Giro e alle varie manifestazioni. È stata una bellissima rivalità, anche questo oggi si è un po’ perso. Io e Saronni pur di non di far vincere l’altro, lasciavamo andare il resto del gruppo. Se fossimo andati d’accordo, entrambi avremmo vinto di più».

Con 273 corse vinte non si lamenti. A quale è più affezionato?

«Mah sa è un po’ come scegliere a quale figlio si vuole più bene. Poi è chiaro che il Giro d’Italia è una cosa particolare, che la gente ricorda, quell’anno (1984, ndr) vinsi pure 4 tappe e avevo già 33 anni. Ma aggiungerei anche il record dell’ora del 1984 e le tre Roubaix. Noi avevamo un vantaggio però rispetto ai corridori di oggi».

Quale?

«Correvamo sempre, tutto l’anno, avevamo più occasioni. Oggi il ciclismo è specializzato, c’è chi fa le corse a tappe, altri le classiche. Questo ha tolto poesia, tornando al discorso di poco fa sull’affetto della gente. Poi vabbè le classifiche odierne hanno poco senso: adesso vincono tanto gli sprinter, ma loro fanno una voltata di 300 metri, noi vincevamo centinaia di corse vere, lunghe, dure, che i velocisti farebbero fatica a terminare».

L’Italia è Paese di grande tradizione ciclistica, ma non sta vivendo un periodo storico brillantissimo…

«Ci mancano i campioni, innanzitutto, ed è un casino. Ci sono ottimi corridori come Trentin e Ganna, ma mancano quelli che fanno i grandi risultati. Vediamo un po’ questo Milan, giovane e forte, potrebbe imporsi. E non ci sono più squadre italiane, ai nostri tempi erano gli stranieri che venivano a correre in Italia, oggi è il contrario. Il problema di fondo è economico…».

Con la globalizzazione i grossi capitali sono fuori dall’Italia e spesso anche dall’Europa…

«Fare una squadra oggi ti costa 15-20 milioni all’anno e per crearne una forte ti ci vogliono almeno cinque anni. Faccia due conti. Le nostre aziende a queste cifre nemmeno ci provano, stritolate come sono dai grandi capitali multinazionali. Solo l’Eni, o l’Enel, o una grande banca potrebbero far nascere un super team italiano».

Lei prima citava Ganna, per cui non ha mai nascosto la sua simpatia. Eppure ogni tanto lo punzecchia…

«Lui un po’ mi assomiglia. Ma ha vinto tutto su pista e credo che ora dovrebbe dedicarsi per due-tre anni alla strada. Non può accontentarsi della grandi performance nelle crono. Ha la forza e la cilindrata per provare a vincere le classiche, ma si deve preparare. Fiandre e Roubaix sono alla sua portata».

Come vive Moser oggi a 72 anni?

«Tranquillo, tra la campagna del mio maso su queste splendide colline e in giro per l’Italia come testimonial di aziende che si appoggiano al ciclismo, o per promuovere il mio libro (Francesco Moser. Un uomo, una biciletta ndr). Il lavoro in vigna è la passione quotidiana, l’altra attività mi porta ovunque ed è quasi un sacrificio».

È di dominio pubblico il suo divorzio dalla moglie Carla Merz dopo 41 anni. Oggi è solo?

«Non sono solo, ho una nuova compagna…(si tratta di Mara Mosole, ex campionessa d’Italia, ndr)».

Rispettiamo la sua ritrosia. Meno riservata è la vita di suo figlio Ignazio. Con Cecilia Rodriguez si era parlato di crisi, poi rientrata. Matrimonio in vista?

«Ma non c’è mai stata crisi, sono i giornali che scrivono un po’ quel che vogliono…».

Quando si sposano? Ha la data?

«In autunno sicuramente, ma il giorno ancora non lo so…».