l'analisi
giovedì 2 Novembre, 2023
di Francesco Barana
Israele e Palestina, due popoli soli. Domenico Quirico, giornalista de La Stampa e storico reporter e inviato di guerra, sul quotidiano torinese è partito da questo assunto per dare una diversa prospettiva al conflitto in Medio Oriente. Israeliani e palestinesi, divisi in tutto, hanno in comune il «rifiuto» che i vari blocchi del mondo, occidentali e arabi, hanno storicamente manifestato verso il loro destino. Quirico, che al T Quotidiano riflette anche sulla debolezza degli Stati Uniti nello scenario globale («Con la fuga americana dall’Afghanistan e l’attacco di Putin all’Ucraina si è avviata l’età del disordine» dice), auspica che questa «doppia solitudine» e «la reciproca consapevolezza di essere stati strumentalizzati dai rispettivi falsi amici» possa indicare ai due popoli «una strada per trovare un modo di stare assieme», anche se, spiega Quirico, «dopo il 7 ottobre (l’attentato di Hamas e la feroce rappresaglia di Israele, ndr) tutto appare ancora più complicato di com’era prima».
Quirico, il «prima» sono più di 70 anni di tensioni, tregue, negoziati e ancora conflitti…
«In questi decenni abbiamo assistito a guerre e terrorismo, ma anche alla retorica del “due popoli due stati” e altre fregnacce diplomatiche inventate dai leader occidentali. Tutto questo cosa ha portato? Ad Hamas e a una nuova guerra».
In cosa consiste la «comune solitudine» di israeliani e palestinesi?
«Prendiamo la Palestina. L’idea di concedere uno Stato, parziale e anche un po’ fittizio, al popolo palestinese non nasce da un impeto della politica internazionale per appagare le loro sofferenze, ma – utilizzando un’espressione volutamente brutale – dalla volontà di toglierseli dai piedi».
Mentre Israele?
«L’Occidente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha dato a Israele un pezzo di terra – un pezzo di terra storico su cui il sionismo si è costruito – per pagare il conto e non sentire più il rimorso dell’Olocausto e per aver assistito per molto tempo senza fare nulla al progetto nazional-socialista di annientamento del popolo ebraico».
Fin qui l’Occidente. Ma la questione palestinese, sembra di capire, non interessa neanche al grosso del blocco arabo…
«Il fatto è che anche i palestinesi, come gli ebrei nel secondo dopoguerra, sono dei profughi. Profughi che hanno rifiutato di integrarsi all’interno dei vari Stati arabi da cui si erano dispersi dopo quella che loro chiamano la catastrofe del 1948, cioè la sconfitta degli eserciti arabi che avevano promesso di riportarli a casa. Sono rimasti palestinesi e nessun regime arabo è riuscito a vincere le guerre contro Israele per ridar loro quel pezzo di terra, così l’unico sistema era rifilarli in un pezzo di Giordania e in un pezzo di Egitto dicendo loro: be’ adesso lo Stato ce lo avete e non dovete più evocare i fantasmi della nostra incapacità e dei nostri debiti con voi».
Ma c’è chi paragona Hamas con l’Isis. La questione palestinese, ai tempi dell’Olp di Arafat laica e territoriale, oggi è anche religiosa?
«Quella di Arafat e dell’Olp era un’epoca diversa, condizionata dai due blocchi Occidente-Unione Sovietica. L’Isis ha cambiato i connotati del rapporto tra mondo occidentale e mondo islamico. E Hamas, organizzazione palestinese che ha ampio consenso in Palestina, fa parte del grande arcipelago del jihadismo che ha l’obiettivo di imporre la sharia. Però tra Isis e Hamas ci sono molte differenze…».
Quali?
«Hamas ha uno scopo specifico, cancellare Israele. L’Isis non si pone la questione, non la menziona mai, come non si cura della questione palestinese. Isis insegue un obiettivo più vasto, imporre il Califfato. E nel Califfato ovviamente non ci sarebbe Israele, mentre i palestinesi sarebbero dei sudditi. Hamas, rispetto a Isis, poi ha una struttura politica più tradizionale e un forte radicamento territoriale. E nel frastagliato e conflittuale mondo musulmano ha una grande capacità tattica: è sunnita, ma sa allearsi e cooperare con gli sciiti».
Lei è critico con la tesi del «due popoli due Stati», ma anche con quella del «uno Stato per due popoli». Perché?
«Entrambe nascono dalla velleità di voler trovare subito una formula. Peraltro l’idea di Stato nazionale è totalmente occidentale e ha già creato Stati artificiali come Siria, Libano e Iraq, che prima erano un’unica identità dell’impero Ottomano. Può anche avvenire che si crei uno Stato unico, ma non prima di un lungo cammino umano tra i due popoli, che abbia come precondizione il totale rifiuto di ambedue ai rispettivi falsi amici e che parta dalle nuove generazioni e da una riflessione sul fatto che sia israeliani che palestinesi sono stati strumentalizzati o rifiutati dai vari blocchi del mondo».
In questo contesto è evidente la debolezza sullo scenario internazionale degli Stati Uniti…
«La fuga degli americani dall’Afghanistan nel 2021 e l’attacco di Putin all’Ucraina nel 2022 hanno avviato quella che io chiamo l’età del disordine. Dal 1989 a prima di questi eventi esisteva una sorta di ordine controllato in qualche modo dagli Stati Uniti attraverso l’economia e la potenza militare. Questo ordine ha resistito anche dopo il crollo delle Torri gemelle. Oggi invece si è rimescolato tutto e ogni attore in gioco cerca il suo tornaconto».
A costo, sembra, di far saltare i tradizionali blocchi e le vecchie alleanze…
«Ogni Stato si muove sullo scacchiere globale in modo liquido e dinamico, mescolando le carte e stravolgendo le proprie posizioni, anche quelle che sembravano immobili e consolidate, in base ai suoi interessi. L’Arabia Saudita era fedele alleato degli Usa, adesso gli fa le pernacchie e vuole entrare nei Brics; nel frattempo la Cina traccia i suoi disegni economici e imperiali. Hamas ha approfittato di questa fase di pieno disordine, in tempi e contesti diversi probabilmente non avrebbe attaccato Israele e l’Iran non l’avrebbe autorizzata».
Quali scenari futuri si possono presagire?
«Ogni età del disordine crea un nuovo ordine, ma difficile intuire che tipo di ordine sarà e prevederne i tempi. L’auspicio è che le tre grandi potenze, Stati Uniti, Cina e Russia, ridefiniscano gli equilibri e le rispettive zone d’influenza, quindi le aree di sicurezza e competenza. La reciproca forza spesso divide il mondo, ma a volte anche lo unisce. È un’affermazione cinica, ma è inutile fare retorica buonista».
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