il colpo di scena
mercoledì 17 Aprile, 2024
di Benedetta Centin
Nonostante lo sforzo investigativo fatto nell’ultimo anno e mezzo, nonostante le indagini su più fronti affidandosi anche alla scienza, alle analisi da laboratorio su una trentina di fucili, rimane senza responsabili la morte di Massimiliano Lucietti, il cacciatore di 24 anni che il 31 ottobre 2022 è stato ucciso alle spalle, raggiunto da un proiettile alla nuca mentre era appostato nel bosco di Corè a Celledizzo, steso a terra e con il fucile imbracciato. Grazie anche al lavoro degli esperti del Ris di Parma si è arrivati a sciogliere alcuni interrogativi ma non alla soluzione del caso, così come emerso nell’informativa finale che i carabinieri del nucleo investigativo di Trento hanno fatto recapitare sulla scrivania del pm Davide Ognibene. Il quale, chiuse le indagini preliminari, potrebbe – il condizionale è d’obbligo ma a questo punto è passaggio scontato – chiedere l’archiviazione dell’inchiesta per omicidio colposo rimasta a carico di ignoti. Di certo c’è — ma questo era già assodato — che a sparare non è stato il forestale in pensione Maurizio Gionta che aveva trovato il ragazzo senza vita e si era ucciso il giorno dopo, lasciando scritto di non attribuirgli responsabilità che non aveva. Lo stub test a cui era stato sottoposto aveva infatti escluso la presenza di polvere da sparo su mani ed abiti. Ma stando agli accertamenti del Reparto investigazioni scientifiche potrebbe essere stato comunque il fucile del 59enne a fare fuoco: è risultata infatti un’alta compatibilità dell’arma con l’ogiva rinvenuta sul ragazzo. Alta ma non piena, totale: quindi non c’è alcuna certezza assoluta.
I fucili, le prove in laboratorio
Sulla morte del ragazzo, conosciuto come Max «Luce», il pm Ognibene aveva aperto un fascicolo e disposto una serie di accertamenti. Senza lasciare nulla di intentato. I carabinieri del Ris di Parma, nell’arco di settimane, avevano analizzato uno ad uno i ventisei fucili calibro 270 acquisiti allora da cacciatori della zona di Celledizzo, effettuando test e prove di sparo e procedendo al confronto con il malconcio frammento di ogiva (parte del proiettile equiparabile al dna), trovato sul cadavere del giovane operaio e vigile del fuoco volontario, raggiunto da una distanza di almeno mezzo metro stando agli esiti dell’autopsia, anche se chi ha esploso il colpo potrebbe essere stato anche ad alcuni metri. Ma tutti gli sforzi degli specialisti del reparto balistico di Parma non hanno portato ad individuare con assoluta certezza l’arma da cui è partito il colpo che quel lunedì mattina poco prima delle 7.30 ha ucciso il 24enne che abitava con la famiglia in paese. Non sarebbero infatti emersi riscontri scientifici certi, di compatibilità piena, capaci cioè di tenere la prova dell’aula, tra le ventisei carabine su cui gli esperti si sono concentrati. E tra queste c’era anche quella di Gionta, il 59enne che aveva rinvenuto il ragazzo ormai senza battito, dando l’allarme, e che il giorno, all’alba del primo novembre, si è ucciso vicino casa. A trovarlo la moglie. Accanto al corpo la fede e un biglietto con scritto: «Non attribuitemi colpe che non ho». A scagionare il pensionato, stabilendo che non poteva essere stato lui a sparare al 24enne, le analisi del Ris: non sono infatti state trovate tracce di polvere da sparo sulle mani e neppure sui vestiti dell’ex forestale, sottoposto alla prova dello stub nel pomeriggio del 31 ottobre di due anni fa, quando era stato anche sentito dai carabinieri come persona informata sui fatti.
I cacciatori convocati in caserma
I Ris in una seconda fase erano stati chiamati ad effettuare ulteriori verifiche, nuovi accertamenti balistici, su altri fucili, con calibri simili a quello già vagliato, il 270 Winchester, usato per la caccia in montagna. Quello del proiettile che ha raggiunto il giovane operaio alle spalle, lo stesso del fucile di Gionta: circostanza che ad oggi è solo una mera, dannata, coincidenza. E anche dagli apparecchi elettronici in uso alla vittima non sarebbero emersi elementi utili.
E, ancora, in due riprese almeno i carabinieri della compagnia di Cles hanno convocato in caserma i cacciatori di Celledizzo e delle aree limitrofe per chiedere loro di fornire i fucili in loro possesso che potessero essere d’interesse. Trovando piena collaborazione da parte dei cittadini. La speranza, delle famiglie di Lucietti e Gionta (assistite rispettivamente dagli avvocati Giuliano Valer ed Andrea de Bertolini), ma anche dell’intera comunità, era quella che gli inquirenti arrivassero a una «sentenza» di verità, a dare un senso ai due lutti che hanno segnato il paesino di poco più di 330 anime della val di Pejo. Ma così non è: quello di Celledizzo potrebbe essere destinato a rimanere un cold case al netto di colpi di scena.