la storia
giovedì 14 Novembre, 2024
di Alberto Folgheraiter
Segno del leone e occhio di lince è il fotografo della carta stampata più «longevo» della regione. Da mezzo secolo, infatti, Gianni Zotta (28 luglio 1950) è il fotoreporter del settimanale Vita Trentina. L’anniversario a tutto tondo è passato in sordina. Ma chi scrive ricorda bene quella copertina dell’autunno 1974 con l’immagine delle mele della val di Non. Al centro della cronaca, allora come oggi, per quei raccoglitori che venivano da fuori. Le parole di papa Francesco, qualche settimana fa, hanno richiamato il tema: «Fanno venire i migranti dal centro Europa a raccogliere mele ma poi li mandano via». Che fa il paio con quanto scriveva sulla Svizzera, già negli anni Sessanta, Max Frisch: «Cercavano braccia, sono arrivati uomini».
E a proposito di pontefici, il nostro li ha «inseguiti» tutti: da Paolo «mesto», di Concesio (Brescia), ad Albino Luciani, da Canale d’Agordo (Belluno), a Francesco d’Argentina, passando per Karol da Cracovia e Benedetto di Baviera. Con papa Luciani ebbe un cocente infortunio professionale. Costretto, come tutti i reporter, sopra il colonnato del Bernini, aveva a disposizione un teleobiettivo da 200 millimetri con un duplicatore di focale che gli era stato prestato da Flavio Faganello. Niente rispetto ai «cannoni» dei colleghi di testate blasonate. E infatti «l’intronizzazione» del papa che sarebbe vissuto 33 giorni risultò lontana, quasi sfocata, in mezzo alla folla di piazza S. Pietro. Vittorio Cristelli, allora direttore di Vita Trentina si accese una sigaretta, girò e rigirò quello scatto e borbottò: «Ci saranno altre occasioni».
Come no? All’uscita dalla sala stampa del Vaticano, quella domenica sera 3 settembre 1978, il «principe» dei vaticanisti, Giancarlo Zizola ci aveva apostrofati: «Salutatemi il Trentino, ma tanto ci rivediamo qui tra un mese». Non abbiamo mai saputo se si fidava troppo delle profezie di Nostradamus o troppo poco del cardinale Marcinkus. Tornammo a Roma un mese dopo.
Tutto è cominciato con una Leica, quando Gianni Zotta non era ancora uscito dalla pubertà. Gliel’aveva regalata il cognato, tedesco di Germania, più che altro per ingraziarsi la sorella. Ma quello strumento gli fu utile fin da novembre del 1966 con Trento e il Trentino devastati dall’alluvione. Via del Suffragio a Trento, allagata e limacciosa: le donne alla finestra che chiedono aiuto ai pompieri, sul gommone, restano nell’archivio personale come una medaglia. Finito la scuola dell’obbligo Zotta andò a bottega da Flavio Faganello, già affermato fotoreporter, bisognoso di un garzone. Mezzo sigaro spento, pendente dalle labbra, Faganello incuteva soggezione. Seguendo il consiglio della mamma Maria, Gianni Zotta si rivolgeva al suo datore di lavoro con un «voi», rispettoso quanto obsoleto. Lo avrebbe fatto anche da grande, fino all’ultimo, fino a quando Faganello morì, a 72 anni, il primo ottobre del 2005.
Flavio fu un padre per quel ragazzino che il papà lo aveva perduto nel 1966, ucciso per un tumore, a soli 59 anni. Mario Zotta, originario di Castel Tesino dove era nato nel 1907, aveva svolto un onorato servizio nell’arma dei Carabinieri.
Unico figlio maschio, il nostro crebbe viziato dalla mamma Maria Magnani, da Coredo, la quale, già in età avanzata, non mancava mai di portare tutti i giorni, al «suo» Gianni, un cartoccio di cioccolatini.
La morte del papà lo costrinse a crescere in fretta.
Nella bottega di vicolo del Vò, a Trento, più che suggerimenti pratici Flavio Faganello gli diede consigli di vita. La tecnica fotografica, Gianni Zotta l’ha imparata giorno per giorno, «rubando» con gli occhi ciò che il suo «maestro» evitava di insegnargli. Certo, come si preparavano le bacinelle della stampa in bianco e nero, l’uso degli acidi e della camera oscura glielo spiegò. Ma l’inquadratura, il taglio dell’immagine e tutto ciò che fa di un’istantanea una signora fotografia, «Billy», così chiamato dai colleghi, fu costretto ad impararlo… sbagliando. A Faganello era capitato di dover coprire il matrimonio di un celebre chirurgo il quale amava soggiornare, d’estate, a Piné dove «il Barba» aveva aperto un negozio di fotografia. Quando, finita la cerimonia, andò in camera oscura per togliere la pellicola, si accorse che il rullino non c’era. Un disastro.
Sarebbe accaduto anche al «Billy», ormai maturo e reso celebre da decine di pubblicazioni, di essere vittima di un’amnesia. Accadde una decina di anni fa. Eravamo in Africa con l’arcivescovo Luigi Bressan, in Karamoja, dal vescovo comboniano trentino Giuseppe Filippi. Colpa di un antimalarico che devastava il fegato e annebbiava il cervello, Gianni Zotta dimenticò a Kampala, la capitale, il caricabatterie della Nikon. Eravamo seicento chilometri a nord, al confine con il Sud Sudan dove i villaggi sono ancora di capanne, i bambini girano nudi, mangiano topi, e un caricabatterie non lo hanno mai visto.
Finì che lo Zotta fu costretto a servirsi di una reflex da quattro soldi e di un telefonino cellulare di antica generazione. Portò a casa, comunque, un onesto reportage. Oltre a una gran rabbia.
Prima di approdare a Vita Trentina, il fotoreporter dava una mano al Gazzettino di Venezia. Nella redazione di Trento era già passato il Faganello, ma un giorno disse al suo allievo che era arrivato il momento di staccarsi «dalla tetta» e di provare a spiccare il volo.
Nel frattempo, assieme al suo maestro, Gianni Zotta continuava a documentare chiese e monumenti, tagli di nastro e primi piani per conto della Regione e della Provincia Autonoma. Erano anni di vacche grasse e di commesse succulente.
Finì che da «apprendista stregone» divenne, con gli anni, stregone a pieno titolo. Cominciò a pubblicare libri fotografici (dalla visita a Trento di papa Giovanni Paolo II, fine aprile del 1995; alle fabbriche che chiudevano, con le «tute blu» finite fuori produzione); proseguì col dare immagine e sostanza a decine di volumi sul Trentino, sull’arte, sulla devozione, sulla storia di questo territorio di montagna.
L’archivio personale è cresciuto a dismisura (difficile quantificare gli scatti), con i conti e le fatture tenuti saldamente in pugno da Donatella, la moglie che gli ha dato due figli: Michele e Sabrina.
Cavaliere della Repubblica per meriti fotografici, in pensione come artigiano, Gianni Zotta continua a fornire immagini al settimanale Vita Trentina, anche perché, è il suo imperativo, «devo darghe ‘na man ai putéi». Che sarebbero poi giornalisti professionisti da anni e già maturi con l’età.
Mentre lui, superati i 74, continua a dire che la professione del fotografo è un mestiere in via di estinzione. Ormai basta (e avanza) il telefonino. Sarà, ma l’occhio e il taglio dell’immagine restano soltanto suoi.
la storia
di Patrizia Rapposelli
Il racconto di Kamal e di quel ricongiungimento familiare tanto agognato: «Da piccolo andavo in una casa di signori benestanti per usare il loro telefono fisso e chiamarlo»