L'intervista
lunedì 7 Agosto, 2023
di Paolo Morando
Esiste ancora la cultura? È la domanda a cui ha cercato di rispondere Giorgio Zanchini a Borgo Valsugana nell’ambito dell’«Agosto degasperiano». E non è una domanda provocatoria, soprattutto se associata al sottotitolo dell’incontro: «Il futuro del sapere in un mondo iperconnessso». Il popolare conduttore radiotelevisivo di «Radio anch’io» e «Quante storie», ha cercato di rispondere anche sulla scorta dei suoi ultimi libri «La cultura orizzontale» (Laterza, 2020, scritto assieme a Giovanni Solimine) ed «Esistono gli italiani? Indagine su un’identità fragile» (2023, RaiLibri). Spiega Zanchini, classe 1967: «La mia generazione ha sperimentato il passaggio a una progressiva frammentazione del modo di trasmettere il sapere, che un tempo era gerarchico e definibile: nel Novecento c’era una mappa chiara di quali erano i giornali da leggere, le riviste, i luoghi in cui si produceva cultura, come università e centri di ricerca, e dove la si fruiva. Ora tutto è diverso».
E si trova anche lei un po’ spaesato?
«Poco fa, qui a Beirut dove sto in questi giorni, mi hanno chiamato alcuni ragazzi trentini per farmi delle domande. Ed erano domande che mi hanno fatto capire quanto la mia generazione abbia attraversato un passaggio radicale, di quelli che si danno poche volte nella storia della formazione delle generazioni. Un intero mondo è stato decostruito dalla rivoluzione digitale. La viviamo tutti: oggi passiamo buona parte della giornata attaccati a quel dispositivo, che è lo smartphone, attraverso cui ora passa l’accesso all’informazione e ai saperi».
E in cui attraverso i social passa anche l’auto rappresentazione sociale del sé.
«Sì. Al di là delle persone un po’ più restie, o più avanti negli anni, quotidianamente milioni di persone, anche nel nostro Paese, auto rappresentano se stessi, la propria vita e le proprie relazioni entro quell’universo. Naturalmente una rivoluzione del genere non può non avere un impatto colossale su quello che noi intendiamo per cultura. Tant’è che oggi gli studiosi parlano appunto di cultura della rete».
Nel Novecento, Marshall McLuhan sosteneva che il mezzo è il messaggio.
«Lo citavo proprio nella telefonata con quella ragazza. A quella frase McLuhan è stato un po’ inchiodato, va detto, però obiettivamente quando cambia la tecnologia cambia anche l’abito mentale delle persone che vivono quella trasformazione».
Nel bene o nel male?
«È un discorso complesso. Rispetto a quando avevamo vent’anni, comunque, il modo in cui ci informavamo, il dibattito pubblico e la piazza sociale sono radicalmente cambiati: sono cadute le gerarchie, la mappa è molto più confusa. Per le prossime elezioni americane, è stato già coniata una nuova espressione: saranno le elezioni della frammentazione mediatica. Oggi Biden e gli uomini politici americani non vanno più solo alla Nbc e al New York Times per rilasciare un’intervista. Biden stesso, e Pence, hanno dedicato tre ore a uno dei tantissimi podcast tra i più popolari d’America».
È un discorso che vale anche per l’Italia?
«Sì. Un tempo si rilasciavano interviste al Tg1 e al Corriere della Sera ed era fatta. Oggi non più. E la frammentazione che stiamo vivendo determina un cambiamento enorme: nell’informazione, per noi che facciamo i giornalisti, ma più in generale nel campo culturale».
E la comunicazione da parte dei politici italiani è al passo con tempi?
«L’altro giorno a “Radio anch’io” avevo ospite il politologo Mauro Calise, che è stato il primo a lavorare sulla personalizzazione della politica. Si parlava di Schlein. E diceva: continuiamo a pensare che la politica e l’orientamento del pubblico sia fatta dal Corriere e dal Tg1, e che quindi per Schlein, “condannata” da quei luoghi, la parabola politica sia già in fase di declino. In realtà, spiegava, Schlein ha un linguaggio e una storia personale completamente diversi, perché conosce e ha vissuto la trasformazione digitale».
Questo discorso è applicabile anche alla cultura?
«Sì. Il termine cultura nella sua definizione non è cambiato molto, anche se nel corso del Novecento si è ovviamente evoluto. Invece i luoghi in cui si cerca e si consuma la cultura sono cambiati: le generazioni più giovani passano attraverso la rete. Quindi la conclusione che ho cercato di trarre a Borgo è che chi è nato nel Novecento fatica moltissimo ad aggiornare la propria grammatica e la propria comprensione del presente. Ma chi si occupa di questo settore, e quindi di informazione, politica e cultura, se vuole sopravvivere deve presidiare tutti i territori: riuscire a stare ovunque e cercare di cucire la frammentazione».
Questo nuovo mondo ha però portato vantaggi: un tempo cercare cultura e informarsi era più difficile, oggi in rete si trova facilmente tutto. Il problema è saper discernere l’autorevolezza e l’affidabilità delle fonti. Forse su questo punto i fruitori non sono ancora bene attrezzati.
«Certo. La rete ci ha portato democrazia, apertura, trasparenza. I rischi vengono dalla neutralità o meno dei poteri che la gestiscono, perché è vero che gli algoritmi governano la fruizione da parte del lettore comune. Quindi come orientarsi? Il mio appello è sempre lo stesso: serve un’alfabetizzazione informatica. A scuola, nelle lezioni di italiano e storia, andrebbero aggiunti corsi per aiutare i ragazzi a muoversi con maggiore consapevolezza all’interno della rete: sapere chi sono i proprietari delle grandi autostrade della rete stessa, chi immette i contenuti, quali sono gli organi di stampa e le fonti più affidabili. Secondo me però uno dei grandi problemi della contemporaneità è il tempo».
Vale a dire?
«Il nostro è un tempo di enorme distrazione: pensiamo solo all’uso che facciamo degli smartphone. Lo vedo nei miei figli adolescenti, la loro incapacità di concentrarsi più di un quarto d’ora su un testo, persino su un film. La sociologa statunitense Shirley Turkle ha scritto pagine bellissime sui rischi di un sapere che non è correlato alla profondità della storia. Stiamo tornando a una sorta di oralità. Nei consumi sul telefonino da parte dei giovani, i video sono predominanti. È come se stessimo tornando a un sapere trasmesso appunto oralmente invece che attraverso la lettura tradizionale. E questo oggettivamente comporta rischi: è un campo che necessità un’attenzione enorme, perché cambia proprio il modo in cui è fatta la nostra testa».
Un cambiamento antropologico irreversibile: noi, non nativi digitali, ancora ricordiamo come si apprendeva nel Novecento. Ma i nostri figli non ne hanno avuto esperienza.
«Mi colpisce sempre un fatto. Chi ha costruito le grandi autostrade della rete, quindi in definitiva questo mondo, ai figli vieta l’uso dello smartphone fino a dodici anni. E anche i cinesi sono preoccupatissimi. È un sapere completamente diverso. Rischiamo di fare un discorso nostalgico, però di fronte a questa irreversibilità inaggirabile qualche cautela dobbiamo inserirla».