l'intervista

sabato 20 Luglio, 2024

Helena Janeczek a Levico, racconta il suo ultimo romanzo: «Dal fascismo alla guerra: indago passato e presente»

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La scrittrice presenterà il suo ultimo lavoro: «Il tempo degli imprevisti». L’incontro sarà moderato dal direttore del nostro giornale Simone Casalini

Pagine in cui risuonano temi e atmosfere, mentre si è catturati da un movimento circolare dello spazio, da un continuo decentramento e al contempo da un viaggio che dalle periferie conduce verso il centro. Da un brusio di sottofondo carico di voci, dicerie, pettegolezzi. Spiarsi e spiare rappresentano un motivo ricorrente del libro, che attraverso quattro racconti intreccia figure storiche e di finzione. Un itinerario che dagli albori del Novecento conduce alle prime avvisaglie della Seconda guerra mondiale, di cui protagonisti sono le sorelle Zanetta, il notissimo dottor K, Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound. La conclusione è affidata alla coralità del quarto episodio, da cui emerge la figura dello studente berlinese Albert O. Hirschman, sullo sfondo dell’avanzare delle leggi razziali.
È questo «Il tempo degli imprevisti» (Guanda, 2024) di Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, con «La ragazza con la Leika» vincitrice del Premio Strega 2018. Domani alle 11 Janeczek racconterà il suo ultimo romanzo alla Sequoia del parco di Levico (in caso di pioggia Palazzo delle Terme). Organizzato dalla Piccola Libreria di Levico Terme in collaborazione con la locale Biblioteca, l’incontro sarà moderato dal direttore del nostro giornale Simone Casalini.
Janeczek, il libro porta il titolo dell’ultimo dei quattro racconti, ma l’atmosfera di «imprevisto» riguarda l’intera narrazione. Crea, inoltre, un istintivo rimando con il presente.
«È esattamente così. Racconto i primi decenni del Novecento ma, per associazione, quel clima connota anche il nostro tempo che, a partire dalla pandemia si rivela sempre più segnato da eventi che fino a poco tempo fa non potevamo neppure immaginare. I primi tre racconti sono ambientati tra Belle Époque e ascesa del fascismo, l’ultimo registra invece i sintomi della Seconda guerra mondiale, cercando di rappresentare che, sì, esistevano rari individui molto consapevoli, antifascisti della prima ora. Gente a cui oggi dobbiamo tanto, ma accanto a loro molte erano le persone che continuavano a cercare di fare la vita di prima, diventando a volte persino co-artefici della loro sventura, per non aver saputo vederla avanzare».
Il libro traccia una sorta di itinerario nell’Italia del Nord, da Ovest ad Est. Una geografia che sottende un disegno?
«Come autrice procedo per intuito, ma certo quella configurazione racconta luoghi importantissimi per me. Mi interessa il viaggio dei singoli personaggi che narro, quello che per me ha un senso rispetto a queste storie è il ritrarre gente che viene dalla periferia, dalle zone più marginali. Queste periferie sono anche terre di frontiera, in particolare quelle di Nordest, ed è qui che emergono le tendenze più pericolose, i conflitti che poi non si sanno gestire. Al centro metto i movimenti di donne e uomini abituati a vivere in campagna, che scoprono i contesti della grande città».
È quanto accade anche alle sorelle Zanetta, in particolare ad Abigaille che affronterà una traiettoria radicale.
«Rimaste orfane giovani, da Borgomanero le sorelle Zanetta decidono di trasferirsi nella grande Milano per diventare maestre. Abigaille è un personaggio particolare, abbraccia le idee socialiste e ha un ruolo importante nell’emancipazione delle donne, sarà arrestata e messa in carcere. Attraverso la sua figura volevo riflettere sul perché certe persone siano capaci di avere coerenza con sé stesse fino in fondo, ma anche sul ruolo centrale che le maestre, spedite nei luoghi più lontani, hanno avuto sin da principio come strumento per dare impulso alla scolarizzazione e al progresso sociale».
In questo senso, incontriamo anche la figura di Rosa Genoni. Ce la delinea?
«Rosa proviene da una famiglia povera della Valtellina e, come tante altre ragazze povere, viene inviata a Milano a fare la sarta bambina. Comincia a dieci anni come “piscinina” e tuttofare in una sartoria di una zia, ma è presto sarta e inventa una moda ispirata ai modelli del Rinascimento italiano. Ha un ruolo fondamentale nella definizione dei canoni del “made in Italy” e veste le donne liberandole dal corsetto. Molto politicizzata, diventa socialista e insieme all’amica Anna Kuliscioff, la moglie di Turati, si batte per i diritti delle donne. Nel 1915 è l’unica rappresentante italiana al Congresso internazionale delle donne all’Aja».
Spiarsi è un motivo ricorrente del libro. Anche l’illustre ospite, il dottor K del secondo racconto, si sente spiato. Perché?
«Per il dottor K mi piaceva introdurre una parodia giocosa del “Processo”. Siamo nel 1920, lui è a Merano nel primo dopoguerra in cui, tra problemi enormi, si va perseguendo un ordine nuovo e democratico. In un clima di questo tipo, possono aumentare le paranoie, e ho supposto che uno come il dottor K, per esperienza e per immaginazione potesse pensare a un complotto oscuro tramato alle sue spalle. È una struttura di racconto che si ispira a una spy story in un territorio complicato in cui le persone più comuni possano finire, appunto, in situazioni “kafkiane”, pur non avendo fatto niente di illecito».
E cosa le interessava mettere in luce invece nel racconto dedicato a Mary de Rachewiltz, la figlia di Pound?
«Ancora una volta racconto uno spostamento che è anche uno spaesamento. Dalla zona marginale della Val Pusteria ci spostiamo a Venezia, dove Mary è condotta dai genitori biologici. Metto a confronto due mondi contrapposti, e il legame forte della bambina con l’ambiente contadino molto duro da cui viene sradicata. Anche qui, parlo di sconfitti e della situazione dello “spiare e dell’essere spiati”. Qua e là si sente che siamo in un’epoca in cui il fascismo è diventato regime e le persone cominciano ad avere precauzioni quasi automatiche per sfuggire ai controlli, alle delazioni».
«Prima che arrivi il disastro si è troppo indaffarati per vederlo arrivare». Inizia così il racconto conclusivo, siamo a Trieste, la città di Svevo e di Joyce.
«Cosa fanno i signori e le signore triestini? Si trovano nei loro caffè di riferimento, da un lato il caffè Stella Polare, dall’altro il Garibaldi. Spettegolano, parlano del più e del meno, come noi oggi, ma sempre con un pizzico di attenzione quando si toccano i temi politici per non rischiare. Molti tra quelli che frequentano i caffè sono borghesi, devono mantenere buoni rapporti con il regime, stare attenti per non compromettere la loro posizione. C’è un cuore tragicomico in questo racconto, perché fino a quando con il pettegolezzo ti fai gli affari degli altri, ti senti al sicuro».
E qui si inseriscono le voci corali, con quale messaggio?
«Ci tenevo a fare un libro che fosse corale e che nella sua coralità desse la possibilità anche alle figure singole di “venire fuori”, come le voci soliste in una composizione corale. Il libro vuole raccontare situazioni simili con tanti personaggi e diverse modalità. Sono quasi sempre racconti in terza persona, che sposano il punto di vista di chi è al centro del racconto, solo nel terzo il punto di vista è quello del ragazzino che stalkerizza la bambina Mary».