la storia
giovedì 26 Gennaio, 2023
di Sara Alouani
Dalla Tunisia a Parigi passando per Trento. Questo l’itinerario di Helmi Mhadhbi, suonatore di liuto arrivato nella città del Concilio all’età di 10 anni per raggiungere il padre. Helmi si è diplomato in musicoterapia umanistico trasformativa al Centro Studi Cesfor di Bolzano e ha frequentato Sociologia a Trento. Dopo aver affinato i suoi studi in sofrologia, oggi Helmi è professore e responsabile didattico di musicoterapia al Conservatoire Jean Wiéner di Parigi e musicoterapista in varie cliniche psichiatriche per adulti e adolescenti della capitale francese. Il suo corso di musicoterapia, basato sulle teorie e tecniche apprese in Alto Adige, è il primo in Francia a svolgersi in un conservatorio. La musica trap, sebbene lui di musica ne ascolti moltissima, non è tra i suoi generi preferiti ma questo non ci ha fermati dal chiedere a Helmi un’interpretazione personale del movimento insorgente di giovani trapper di origine straniera in Trentino.
Perché proprio il liuto?
«Non è stata una scelta immediata. Ho iniziato a fare musica all’età di 5 anni con le percussioni e, qualche anno più tardi, ho aggiunto il pianoforte, così, la mia famiglia mi ha iscritto al Conservatorio nazionale di Musica di Tunisi. Quando avevo 10 anni ho assistito come a un’epifania che mi ha portato sulla strada dell’oud. Vidi per la prima volta un concerto dell’iracheno Naseer Shamma, uno dei più grandi musicisti e suonatori di liuto al mondo che poi diventerà anche uno dei miei maestri, dove suonava con una mano sola. E perché mi chiederai? Un suo amico perse la mano destra durante la guerra con l’Iran così Shamma decise di coniare questa nuova tecnica per permettergli di suonare ancora. Rimasi talmente affascinato da questa storia che decisi anch’io di cominciare con questo nuovo strumento ma da autodidatta. Trasferitomi in Italia con mio padre poco tempo dopo ho dovuto fermarmi a causa del trambusto creato dalla nuova situazione però è proprio a Trento che ho sentito il bisogno di ritrovare le mie radici attraverso un suono che mi riportasse a casa e quel suono fu proprio quello del liuto. Ho ripreso a suonare in autonomia e a frequentare masterclass all’estero, tra cui quella al Cairo con il grande Shamma. Da questo momento in poi non ho più abbandonato il mio strumento».
A Trento ha iniziato una carriera da musicista, ha collaborato con Corrado Bungaro e ha inciso anche un album.
«Ho collaborato per anni con l’orchestra multietnica OrchExtra Terrestre e ho fondato assieme a Bungaro l’Ensemble Turchese, iniziato come duo, poi come trio insieme al suonatore di tabla indiana John Salins, per poi diventare un quintetto insieme Luca Degani al bandoneon e al sassofonista cubano Angel Ballester. Proprio con loro ho inciso l’album «Safar», il viaggio, che abbiamo presentato al festival «I suoni delle Dolomiti» nel 2015. Inoltre, lavoravo ad un progetto ideato da me incentrato sulle varie sfaccettature dell’arte tra musica, danza e lettura, il «Jusur Project», in collaborazione con musicisti da tutto il mondo. Amo la poesia, specialmente quella sufi, e mi piace lavorare su più dimensioni. Sono convinto che la parola per essere bella non debba per forza essere cantata, piuttosto deve essere detta con sentimento. Spesso faccio io le letture durante le esibizioni».
Lei scrive anche la sua musica, in ogni composizione sembra che ritorni sempre un po’ la nostalgia del suo Paese, la Tunisia. «Tra me e il mare» è il pezzo che più la rappresenta?
«Diciamo che io non mi siedo e compongo per altri, piuttosto racconto storie sonore che vivo in prima persona e che mi scaturiscono da emozioni forti. Scrivo quando ho bisogno di esprimere dei sentimenti come rabbia, gioia, dolore e così facendo riesco ad esternarli. Emozione, infatti, deriva da e-muovere, che significa muovere verso l’esterno. Nello specifico, ho composto «Tra me e il mare», durante un viaggio verso la Tunisia: ero sul pontile della nave, di notte, solo con il mio liuto e si era creato questo bellissimo trio assieme al mare. La nostalgia, è vero, mi ha spinto a suonare quel pezzo ma paradossalmente era rivolta all’Italia e per me fu uno shock. Io, che amavo così tanto la mia terra, proprio mentre ci stavo andando, già soffrivo per l’abbandono di un’altra parte di me. È stato il momento in cui ho capito che qualcosa in me era cambiato e dovevo prenderne coscienza. Ho iniziato ad interrogarmi sul dove fosse casa mia. Da anni, ormai, il concetto di casa non mi appartiene molto; per evitare il senso di perdizione mi sono costruito una casa dentro di me e me la porto d’ovunque io vada».
Come mai ha deciso di spostarsi a Parigi?
«A Trento non mi mancava nulla, avevo tutto quello di cui teoricamente, sottolineo teoricamente, uno ha bisogno. Lavoravo, suonavo, mi ero diplomato in musicoterapia ma avevo bisogno di trovare il mio spazio in un posto dove non fossi perennemente strano, particolare, anche con accezione positiva, intendiamoci, ma mi infastidiva comunque. In Trentino, nonostante avessi tanti amici e, non mi piace la parola integrazione, quindi diciamo, nonostante mi sentissi in interazione con la società trentina, non mancavano mai le occasioni di farmi sentire “il tunisino che suona, che fa il musicoterapista, che parla bene l’italiano”. Volevo essere trattato come essere umano e non come persona di origini tunisine. Ora a Parigi alcuni colleghi non sanno nemmeno da dove vengo, non me l’hanno neppure mai chiesto, perché sono più interessati al mio professionismo che alle mie origini. Ciò non toglie che io ami il Trentino e ci torno volentieri sia per la musica che per la famiglia che è rimasta lì e per le amicizie che conservo principalmente grazie alla musica e alla musicoterapia».
Da musicista a musicoterapeuta e sofrologo. Lei ha anche dato il via al primo corso di musicoterapia in un conservatorio della Francia. Cosa fa nello specifico un musicoterapeuta?
«Il corso è anche il primo approccio italiano, per la precisione di Roberto Ghiozzi, di musicoterapia umanistico trasformativa ad essere insegnato all’estero. Esistono ricerche che evidenziano come oggi viviamo in un sistema dove il tempo di ascolto medio di un medico ormai non supera il mezzo minuto. Lo studio, eseguito in Francia, si chiama proprio “regola dei 23 secondi” e vale per tutta la società occidentale. Trascorso questo lasso di tempo il professionista interrompe il suo paziente e prescrive una cura. Attraverso questo approccio innovativo di musicoterapia, invece scaviamo nel profondo del malessere umano, poiché il suono arriva laddove non arriva la parola. Quest’ultima passa dall’intelletto, viene pensata, mentre il suono è un insieme di vibrazioni sonore che solleticano il sentimento e pizzicano direttamente le corde del cuore. I pazienti possono sperimentare suonando alcuni strumenti come le percussioni, altre volte, invece, la terapia è ricettiva e, quindi, è il terapeuta a suonare per loro. Io in particolare suono il liuto, il pianoforte, l’hang e le campane tibetane. La nostra è generalmente una terapia complementare che lavora in coordinamento con lo psichiatra, lo psicologo ed altri professionisti soprattutto quando si tratta di malattie degenerative o infettive che abbisognano di altre cure. Capita anche che ci siano persone che hanno problemi di stress importante o difficoltà di coppia e in questi casi la sola musicoterapia può bastare».
Un’ultima domanda per Helmi il musicista: cosa ne pensa dell’onda di trapper trentini di seconda generazione che esprimono rabbia e rivendicano le proprie origini attraverso la musica usando anche più lingue, tra cui quella di origine?
«Inizialmente son rimasto impressionato dal grande giro di droga, dalla criminalità e dalla delinquenza che caratterizza questi ragazzi ma che è il risultato dell’emarginazione ed è naturale. La presenza artistica musicale, al di là del genere, è una luce che parte dalla criminalità ma che va verso l’arte e anche se solo uno di questi artisti esce dalla criminalità per fare arte è tutto di guadagnato, anche per la società. Io dico sempre: in una casa dove c’è un artista non può esserci un “terrorista”. Magari è un’illusione ma mi aiuta a guardare con positività il mondo. La presenza di questi generi musicali, anche se non li ascolto molto, è molto positiva, sono dei giovani che hanno bisogno di esprimersi e per fortuna hanno trovato un modo alternativo per farlo. Vorrei fare un appello ai politici trentini: prendete in considerazione questi artisti, con molta serietà, ascoltate questi giovani, perché questa loro frustrazione è un brutto segno. In Francia è successo lo stesso: nelle banlieues i giovani si sono sentiti emarginati, si sono sentiti cittadini di serie b e si sono aggrappati alle proprie radici per sentirsi vivi. Questo è un gesto molto pericoloso. Le proprie origini non devono essere un rifugio, bensì una ricchezza e in questo senso, anche se non sembra così, il modello francese ha fallito».