L'INTERVISTA
domenica 23 Aprile, 2023
di Simone Casciano
A volte un alpinista parla di più con le sue scalate che con le parole. Guardare Hervé Barmasse arrampicarsi sul Cervino assieme al padre, oppure le immagini delle sue ultime imprese in Himalaya, restituiscono un’impressione quasi eterea, impalpabile del suo modo di scalare. Una leggerezza, nei gesti, nella tecnica e nell’equipaggiamento, che ben si accorda con la filosofia che questo alpinista, figlio di alpinisti, cerca di comunicare con il suo percorso di ricerca interiore ed elevazione verticale. «Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia», scriveva Sergio Atzeni parlando della sua Sardegna. Allo stesso modo Hervé Barmasse si muove leggero come l’aria, come le nuvole che si alzano la mattina tra le vette delle alpi. Ed è proprio questa leggerezza, questa pulizia, a incapsulare bene il senso di tutta la ricerca alpinistica di Hervé Barmasse e delle sue spedizioni più recenti in particolare. L’alpinista valdostano sarà protagonista di tre eventi nel corso dell’imminente Trento Film Festival. Si comincia Il 29 aprile, nella sala delle conferenze del Muse alle 17.30, con The Future Game durante il quale Barmasse, in compagnia del giornalista Luca Castaldini, affronterà opportunità e importanza di un alpinismo sostenibile. Lo stesso giorno, alle 21 presso l’auditorium Santa Chiara, si terrà un evento speciale. Un vero e proprio dream team dell’alpinismo sarà protagonista di Fra ghiaccio e neve, dove l’alpinismo si fa epico. Una serata unica che vedrà dialogare Hervé Barmasse, Alex Txikon, Chhepal Sherpa e David Göttler. L’ultimo incontro è in calendario per il 6 maggio alle 10 alle gallerie di Piedicastello dove l’alpinista assieme a Tudor Laurini approfondirà i temi della comunicazione legata al mondo della montagna. Al centro di tutto rimangono l’alpinismo e la sostenibilità, lo zenit della sua ricerca per Hervé Barmasse.
Hervé Barmasse cos’è per lei la sostenibilità?
«Innanzitutto, bisogna fare una distinzione tra l’alpinismo e la fruizione della montagna. Le Alpi sono sempre più frequentate e questo porta in certe località una quantità di persone che non sono in grado di contenere. Penso allo sci, quando in un piccolo paese arrivano fino a novemila macchine. Questo deve interrogarci. Che idea abbiamo delle nostre montagne? Quale futuro? Anche tenendo conto che la neve sta scomparendo. Le nostre valli temo non possano più sopportare questo sistema. Dobbiamo immaginare un turismo differente, più diluito nell’arco di 365 giorni invece che concentrato nei picchi stagionali, meno affollato ma più duraturo, così da rendere sempre vivi anche i paesi».
Sente l’urgenza di questa sfida? Ce lo comunica anche la siccità e l’assenza di neve?
«Sì, lo dicevo già un anno fa al festival che saremmo arrivati a un punto in cui l’acqua sarebbe stata al centro dei nostri discorsi, ma non pensavo succedesse così in fretta. Quest’anno ce ne siamo accorti in tutta la sua tragicità. In Himalaya l’inverno resiste ancora, ma pure lì si percepisce un cambiamento, mentre da noi sembra sparito. Questo deve metterci sull’attenti. Serve un cambiamento, dobbiamo immaginarlo, volerlo e crearlo. La cosa più difficile per l’uomo è cambiare le proprie abitudini, ma farlo significa salvare la vita sulle nostre montagne. La nostra missione deve essere trovare l’equilibrio tra ambiente, vita ed economia, deve essere il punto cardine della nostra società e delle valli in particolare. Certo che non si può immaginare di chiudere lo sci domani, ma bisogna cominciare a immaginare una transizione».
In questo contesto come si inserisce l’alpinismo?
«È fondamentale per i messaggi che veicoliamo. Parlando di alpinismo bisogna guardare all’Himalaya. Dove spesso si parla di sfide, ma si tratta di ripetere le vie normali, al massimo con tecniche nuove. Ma nessun lavoro funziona così, pensi che nel 99% dei casi si sale ancora con le corde fisse, che poi rimangono lì. Almeno ora l’ossigeno viene riportato giù, ma in quota rimangono le corde in nylon, tende e altro equipaggiamento. Ma non dovremmo essere proprio noi alpinisti a dare il buon esempio? L’idea, con “The Future Game” è proprio questa, mettersi in gioco e iniziare a pensare un modo e un mondo diverso. Ricordandoci che salvando il pianeta stiamo salvando anche noi stessi. Diventare ambasciatori della montagna significa questo. Siamo tutti ambasciatori della montagna quando rispettiamo lei e le popolazioni che la abitano. Vale per le Alpi, ma anche per il Nepal, il Karakorum e le Ande».
E qui si inseriscono le sue ultime spedizioni himalayane, un anno fa sul Nanga Parbat e pochi mesi fa sul Dhaulagiri?
«Certo si collega a quello di cui stavamo parlando. L’obiettivo è quello di salire un 8mila in stile alpino. Senza sherpa, senza corde fisse. Si parte con la propria attrezzatura, si sale e si scende senza lasciare traccia del proprio passaggio. È una sfida che non è mai stata fatta prima in invernale, per questo è molto affascinante».
Quali sono le difficoltà di questa impresa?
«La sfida è legata soprattutto alle condizioni meteorologiche dell’inverno più che alla mia preparazione atletica. Quest’anno non abbiamo mai avuto una finestra di bel tempo sufficiente per arrivare in cima alla montagna. Il bello però è quello di portare questa doppia sfida, sportiva e ambientale, sulle vette delle montagne più importanti. Secondo me il futuro dell’alpinismo si gioca qui».
In estate invece la sfida è stata conquistata?
«Sì, ho salito lo Shisha Pangma, era il mio primo 8mila e l’ho salito subito in stile alpino, senza fare prima un’esperienza con tende, campi e corde fisse. Questo ci dice che si può fare»
100 anni fa Comici vedeva nell’alpinismo la ricerca della linea perfetta, dell’estetica dell’arrampicata. Ora qual è la ricerca?
«Io sono convinto che l’alpinista esprime se stesso attraverso le proprie arrampicate. Delle nuove generazioni guardo con grande interesse al movimento francese. Giovani che inseguono salite storiche, ma reinterpretandole con un nuovo stile alpino. Per noi ora è importante la coerenza con i nostri principi. Ecco direi che è questa la mia “Linea Perfetta”. Uno stile di arrampicata pulito, che non lascia traccia».
Lei ha realizzato tante imprese, ma sulle nostre Dolomiti ancora niente?
«Effettivamente qui non ho ancora fatto nulla di mio. Ci sono venuto tante volte. Il mio passaggio da aspirante a guida alpina è stato a San Martino di Castrozza. Mi ricordo in particolare la salita di “Supermatita” aperta da Manolo. Mi piacerebbe però fare qualcosa di nuovo e importante nelle Dolomiti».