L'intervista
giovedì 4 Gennaio, 2024
di Claudia Gelmi
Ospite della Fondazione Caritro nell’ambito del progetto di formazione per ricercatori e ricercatrici organizzato in collaborazione con Feltrinelli Education «Trasmissioni», la scrittrice, curatrice editoriale e conduttrice radiofonica Chiara Valerio inaugurerà il percorso volto a rafforzare le competenze della divulgazione nel mondo della ricerca il 16 gennaio, alle 17 alla sala della Cooperazione di Trento, con una masterclass sul potere delle storie e su come anche i contenuti più specialistici e ostici possano diventare narrazione. L’incontro è aperto al pubblico a ingresso libero fino a esaurimento dei posti. Dato l’elevato numero di prenotazioni al momento (info: www.fondazionecaritro.it), verrà predisposta anche una diretta streaming.
Chiara Valerio, partiamo dall’incontro che terrà a Trento, «Il potere delle storie». Esistono davvero delle «regole», degli «ingredienti», per creare una «storia» di valore e interesse? Dove risiede e dove ci può condurre il potere delle storie?
«Non credo esistano regole. Esistono però esempi. E dagli esempi si può dedurre. Dunque, per creare una storia bisogna leggerne molte. O così mi è sempre sembrato. A Trento parlerò di lettura creativa che è una mia grande passione da quando ero bambina e, come molti bambini, cambiavo la fine delle favole ma esercitandomi a una certa coerenza con gli elementi dati. Lo facevo anche con le storie mitologiche, mi divertivo molto. E con me le mie due sorelle più piccole».
Dal potere delle storie al potere delle parole. Lo scorso dicembre, su «Repubblica», ricordando Michela Murgia tra le donne che hanno segnato il 2023, ne ha esaltato il talento di «fulminare in una sintesi, una parola sola, talvolta avventata e sempre illuminata, un argomento e un mondo complesso». Quante volte, in questa manciata di mesi appena trascorsi dalla sua morte, ci siamo trovate a pensare quanto manchino le parole di Murgia per interpretare e definire i fatti politici e di cronaca accaduti, quanto manchi al Paese un pensiero illuminante, sovversivo e chirurgico come il suo. Qual è a suo avviso l’eredità più importante che l’intellettuale sarda e sua cara amica ci ha lasciato in dono?
«Non mi piace rispondere a domande sull’eredità di Michela Murgia. E non lo farò. Ci sono i suoi libri, ne esce in questi giorni uno postumo che è una riflessione sulla gestazione per altri e sulla maternità (“Dare la vita” uscirà per Rizzoli il 9 gennaio, ndr). Non credo di aver esaltato il talento di fulminare in una sintesi, una parola sola, era una riflessione fattuale, Michela Murgia era in grado di immaginare e verbalizzare una sintesi. La sintesi è una caratteristica del potere delle storie, o così mi pare. Marcello Fois, scrittore, e grande amico di Michela, dice sempre che l’eredità di Michela siamo tutti noi. Dunque, se i libri di Michela Murgia, passati e futuri – Alessandro Giammei ha scovato e pubblicherà molti inediti – non dovessero bastare, ci siamo noi tutti, dunque ciascuno ragioni sull’eredità di Murgia a partire da sé».
Rimanendo nell’ambito del potere delle parole, nel suo ruolo di curatrice della fiera «Più libri più liberi», quest’anno ha voluto dedicare l’appuntamento a Giulia Cecchettin. Anche in questa orribile vicenda, le «parole per dirlo» hanno fatto la differenza. Nel caso particolare è stata la potenza delle parole della sorella Elena e del padre Gino a provocare quel sentito rituale collettivo di indignazione cui abbiamo preso parte e a dare un valore pubblico a un dolore privato. Qual è il suo punto di vista rispetto a quanto accaduto, e quanto ha influito la parola che dà il giusto nome alle cose?
«La fiera è stata dedicata a Elena Cecchettin e alla memoria di Giulia Cecchettin. Credo che la famiglia Cecchettin tutta abbia dimostrato che si può soffrire senza odiare, e che nonostante tutte le avvedutezze culturali, emotive e sentimentali, le donne sono in pericolo in un mondo in cui il femminicidio è uno strumento, tra altri strumenti, per mantenere un certo ordine sociale. Lo trovo spaventoso. Soprattutto in un Occidente che si è fatto baluardo, ed è riuscito, in secoli recenti, a mantenere alta e solida una idea di diritti e di uguaglianza. O se non a mantenere a immaginare e raccontare. Ecco, il punto è che anche l’enorme potere delle storie talvolta fallisce. Chiedersi il perché è un bell’esercizio».
Lei ha preso in diverse occasioni una posizione molto critica nei confronti della presidente del Consiglio Giorgia Meloni rispetto alla sua visione della donna (e delle questioni di genere e dei diritti in generale) nell’ambito di un sistema patriarcale che si autoalimenta anche attraverso l’uso di un determinato linguaggio. È banale, ma non basta essere donne per contribuire a contrastare gli stereotipi che nutrono il nostro atavico sistema di potere. Quanto il non agire anche verbalmente influisce sulla radicalizzazione di tale sistema e dei suoi esiti nel vivere quotidiano?
«Non amo la parola patriarcato ma amo ancora meno un sistema in cui tutto si etichetta e dunque molto, in questa etichettatura si esclude. Essere donne o uomini non è tanto importante quando si compiono le imprese, o così mi sembra. E non è sul suo essere donna che affronto le questioni riguardanti le decisioni di Giorgia Meloni, ma sul suo essere una funzione di uno Stato dove le donne e gli uomini vengono trattati in maniera differente, impari e spesso ingiusta. Non parliamo di genere, parliamo di salari, infrastrutture sociali, accesso a posti apicali, garanzie. Parliamo prima di questo, altrimenti è facile rendere tutto bianco o nero, buono o cattivo».
Al momento sta lavorando a nuovi progetti culturali che ci vuole raccontare?
«Il mio prossimo romanzo uscirà per Sellerio, il 20 di febbraio prossimo. Si intitola “Chi dice e chi tace”. L’ho scritto in gran parte dell’estate del 2021. A rileggerlo oggi penso sia anche un romanzo su quanto i gesti della cura possono essere anche gesti di coercizione. Come per il farmaco e il veleno. Una faccenda di proporzione».
Lei è molto seguita anche sui social. Una curiosità, a cosa si riferisce il suo nome account in Instagram, «slaterpins»?
«È il primo racconto di Virginia Woolf che ho tradotto al liceo, “Slater’s pins have no points”. Slater è il proprietario di una merceria. I suoi spilli spuntati danno il via a una storia d’amore mancata tra Julia Craye e Fanny Wilmot, insegnante e studentessa di piano. È il primo racconto in cui ho letto la parola “queer”».
Un’ultima domanda. Tra i tanti progetti che porta avanti, il programma radiofonico «L’isola deserta» di Rai 3 è un cult per gli appassionati e le appassionate che lo seguono. Possiamo rivolgere a lei la domanda che in trasmissione fa ai suoi «naufraghi»? Quale libro, film e canzone porterebbe con sé su un’isola deserta?
«Porterei il “Requiem” di Mozart nella registrazione di Celibidache, “Lo Scimmiotto” di Wu-Cheng-En, e “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder».