domenica 12 Gennaio, 2025
di Luca Galoppini
Il 29 maggio di 30 anni fa, i Pink Floyd pubblicavano uno dei più importanti album dal vivo di tutti i tempi. Si tratta di «Pulse», composto da 24 tracce, tra cui la completa esibizione di «The Dark Side of the Moon» e alcuni brani provenienti dall’album che diede nome al tour, «The Division Bell», che registrò soldout in tutti i palazzetti, gli stadi in cui prese piede, tra cui anche l’Earl’s Court di Londra, dove «Pulse» venne registrato, in data 20 ottobre 1994. A tre decenni dall’esibizione dei Pink Floyd, toccherà ai Big One, la più grande cover band europea del gruppo britannico, riproporre il capolavoro. La band, capitanata dal cantante e chitarrista Leonardo De Muzio, con il quale si è svolta l’intervista, si esibirà a Trento all’Auditorium S. Chiara venerdì 24 gennaio alle 21. Biglietti ancora disponibili su Ticketone e alla cassa del teatro.
De Muzio, come mai avete scelto di riproporre «Pulse» dal vivo?
«Quest’anno è il trentennale dell’album, visto che il tour è inizio nel 1994, poi è finito nel 1995. A me piace particolarmente perché, musicalmente, secondo me avevano superato quella fase un po’ negativa che c’era tra di loro, quando Roger Waters, bassista e paroliere della band, decise di concentrarsi sulla sua carriera solista. In quel periodo, lui dava molta più importanza ai testi e al lato concettuale, mentre io adoro “Pulse” proprio perché la band ha messo di nuovo al centro l’aspetto musicale. È un album dal vivo molto suonato che, dal mio punto di vista, riprende il periodo musicale migliore dei Pink Floyd. Lo considero il massimo musicalmente parlando, anche se ovviamente senza Roger Waters si è persa una parte importante. A me piace molto il lato musicale dei Pink Floyd e David Gilmour, chitarrista e cantante, ha sempre prestato molta attenzione a questo aspetto».
Come vi siete preparati per ricreare quell’atmosfera e quella qualità tecnica tipica dei loro concerti?
«A me piace concentrarmi sul lato musicale. Infatti, anche dal punto di vista scenografico, pur utilizzando una buona effettistica – luci, effetti, proiezioni – cerco sempre di dare più importanza alla musica. Noi utilizziamo gli stessi strumenti che i Pink Floyd usavano dal vivo, dalle chitarre alla sezione delle tastiere, al basso, utilizzando anche gli stessi amplificatori e catene di processori. L’idea è di ricreare il più possibile quelle sonorità vintage. Oggi è facile trovare gruppi che utilizzano modelli digitali, come il kemper, per cercare di riprodurre un sound simile, ma il suono non è affatto lo stesso di quello che riproponevano i Pink Floyd all’epoca. Ho visto recentemente dal vivo sia David Gilmour sia Roger Waters, i loro suoni sono gli stessi, perché continuano a utilizzare gli stessi strumenti. Questo per me è fondamentale, ed è proprio quello che ci differenzia dagli altri gruppi che tentano di fare lo stesso genere. Poi c’è da dire che tra la mia voce e quella di Gilmour ci sono delle similitudini incredibili, di timbro e di interpretazione, e questo è qualcosa che il pubblico apprezza molto. Non è una cosa che si trova facilmente altrove, ed è proprio il nostro punto di forza».
A proposito di live, quest’anno David Gilmour si è esibito a Roma, al Circo Massimo. Com’è stato il concerto dal suo punto di vista, sia da fan sia come professionista?
«Una volta ero un fan sfegatato, con gli occhi a cuore come si dice, e in quel periodo non riuscivo a vedere davvero il prodotto per quello che era. Ecco perché sono felice di non essere più un fan. Vederli dal vivo è sempre un’emozione forte, quasi come incontrare un parente. Per me, David Gilmour è stato uno dei miei principali ispiratori, e vederlo, anche nei suoi limiti e nei suoi errori, lo rende ancora più umano. Quando lo vedi dal vivo, capisci che sono persone come noi, con le loro imperfezioni, e questo è quello che trovo più bello. Dal punto di vista professionale, è una cosa diversa. Quando suono e canto, non cerco di imitare Gilmour o di fare delle caricature. Non mi interessa fare un’imitazione fedele. Ho la fortuna di avere un registro vocale che si avvicina al suo, ma non è un imitarlo, è più una naturale affinità. E la stessa cosa vale per la chitarra. Non sono un velocista, e nemmeno Gilmour lo è. Mi sono sempre concentrato più sulla qualità delle note che sulla quantità, ed è proprio questo che mi lega al suo modo di suonare. L’approccio alla chitarra e alla musica in generale è molto simile. Poche note, ma fatte con sentimento, senza forzature. Quando suono, mi sento a mio agio perché non sto cercando di riprodurre qualcosa esattamente, ma di esprimere quello che sento».
Anche Roger Waters è passato in Italia qualche anno fa. Vedendoli entrambi, si nota che l’approccio del concerto di Waters è molto diverso rispetto a quello di Gilmour. Gilmour è molto più musicale, mentre Waters ha un approccio anche molto più visivo e scenico. Dal canto vostro, riuscite ad estrarre qualcosa anche dai concerti di Waters?
«Questa è una domanda interessante, soprattutto quando si parla di Roger Waters, che ha avuto un impatto enorme sulla musica dei Pink Floyd. Personalmente, credo che la grandezza di Waters emerga soprattutto nel suo lavoro compositivo, in studio, più che nelle performance live. È lui che ha creato molti dei brani più iconici, le intuizioni musicali e soprattutto i testi che hanno caratterizzato il sound del gruppo. Quello che mi colpisce di lui è la sua capacità di spingere sempre oltre i limiti, non solo musicalmente, ma anche dal punto di vista tecnologico. Quando si parla di scenografie e effetti, è evidente che Waters sia sempre stato avanti rispetto agli altri, e ha saputo usare la tecnologia per creare esperienze davvero uniche. Nel nostro gruppo, però, ci sentiamo forse più vicini all’aspetto “Gilmouriano” dei Pink Floyd, proprio perché ci concentriamo di più sulla parte musicale e sulle emozioni che possiamo trasmettere con la musica».
Un’ultima domanda, quasi impossibile. Qual è il suo brano preferito dei Pink Floyd?
«È veramente impossibile rispondere perché non ho nemmeno un album preferito. In realtà potrei dire che dipende molto dal mood del momento. Ci sono dei periodi in cui preferisco ascoltare delle cose più recenti e altri in cui vado alla ricerca di altre più vecchie, magari perché ci sono delle atmosfere che accarezzano meglio l’anima diciamo in quel momento. In questo momento i brani che mi sento più dentro probabilmente sono quelli di “The Division Bell”, in particolare “Coming Back to Life”, ma anche “A Great Day for Freedom”».
Foto Francesco Chiot©