l'esperimento sociale
sabato 28 Gennaio, 2023
di Sara Alouani
«La vera domanda è: ma quanti italiani sono rimasti?». Generalmente non si risponde a una domanda con un’altra domanda ma è lecita l’interrogazione di una ragazza alla quale abbiamo chiesto di quantificare il numero di stranieri residenti in provincia di Trento. Con un pizzico di ironia condita con un filo di sarcasmo Valentina, appena trentenne, bionda, occhi verdi e con un fidanzato di origine albanese, apre un dilemma che è molto meno semplice da risolvere di quanto si creda. La sua risposta ufficiale, dopo una breve pausa per concludere la risata, è 56%, un dato esageratamente superiore a quello realistico riportato proprio qualche giorno fa dall’Istituto di statistica della provincia di Trento (Ispat) dove addirittura si evidenzia un calo della popolazione straniera sul nostro territorio rispetto agli anni precedenti e che a inizio 2022 era 8,5%. In realtà, sebbene i numeri parlino chiaro, Valentina è tra le tante persone che hanno fornito percentuali più alte rispetto a quella effettiva degli stranieri residenti in Trentino: secondo il nostro esperimento sociale 8 persone su 10 hanno dato percentuali superiori all’8,5. In media, la percezione della presenza di residenti con cittadinanza diversa da quella italiana è del 24%. Nello specifico, abbiamo intervistato persone di età diverse e dislocate su tutto il territorio, da Avio alla Val di Fassa, da Primiero di San martino di Castrozza a Martignano per raccogliere opinioni di occhi diversi, anche laddove la concentrazione di stranieri è minore. Effettivamente, a primo acchito, la differenza più importante di opinioni si riscontra proprio dal luogo di residenza degli intervistati. Nelle valli del Trentino la risposta media si aggira intorno al 17% contro il 30% degli abitanti della città e dintorni e ce lo conferma Valentina dopo aver scoperto che la sua idea di presenza straniera è sei volte superiore al dato corretto.
«Mi sono basata principalmente su dove abito, a Gardolo, e devo dire che ne vedo tanti, anche che fanno la spesa nel supermercato dove lavoro a Mattarello. L’8,5% mi ha sorpreso davvero, ero convita di vedere molti più stranieri, soprattutto tunisini, albanesi e rumeni, ed ho sparato alto».
Per meglio comprendere questo fenomeno ci siamo affidati al pensiero sapiente del direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, il Professor Giuseppe Sciortino che parte subito nel sottolineare come sia difficile per gli esseri umani fare valutazioni di qualsiasi genere a livello cognitivo: «Il problema principale è che non siamo in grado di stimare ad occhio. Immaginiamo di dover calcolare l’altezza di un palazzo semplicemente guardandolo: è pressoché impossibile. Lo stesso vale per la curva gaussiana, soprattutto quando si tratta di percentuali; anche chi le ha studiate una volta su due le sbaglia. A meno che non si tratti di uno specialista nell’ambito dell’immigrazione e che conosce i dati a memoria, è rarissimo che qualcuno riesca a dare una percentuale esatta. Le risposte degli intervistati sono delle sensazioni, emozioni tramutate in numeri; quindi, questo ci permette comunque di tradurre la loro percezione in parole: chi dà l’80% intende tanti, forse troppi».
Il secondo passaggio è capire chi siano effettivamente questi stranieri, chi viene percepito come straniero e su quale base una persona viene etichettata come straniera. Bisogna ricordare che le acquisizioni di cittadinanza sono aumentate rispetto al 2020 e solo nell’ultimo anno ben 2603 persone sono state naturalizzate e che quindi, nonostante i loro connotati e l’abbigliamento non rispecchino il cliché dell’identikit trentino lo sono a tutti gli effetti. «L’identità non è immediata –spiega Sciortino– ma ha confini molto porosi e più passa il tempo più questi confini diventano porosi. Magari negli anni Novanta si poteva andare a colpo sicuro, ora non più. Ci sono persone che hanno cognomi molto complicati e che invece sono italiani da generazioni, penso ai latino-americani che hanno la cittadinanza per discendenza. Poi esistono persone che presentano un fototipo europeo, come le persone dell’est Europa, che è molto vicino al nostro e crediamo siano italiani invece scopriamo essere immigrati».
È chiaramente anche una questione di percezione che va di pari passo con il fenomeno dell’integrazione, che è piuttosto nuova rispetto ad altri Paesi europei. Se consideriamo che negli anni Settanta non c’erano stranieri, dagli anni Novanta, invece, abbiamo assistito a un crescente aumento del numero di immigrati che ha portato inevitabilmente le persone a vederne di più, cosa che, a detta del professore, è molto positiva: «È un’esperienza nuova per molte persone in Trentino e quindi pensano che siano tanti perché improvvisamente li vedono in coda con loro dal medico di base, a fare la spesa nello stesso supermercato, sono i loro vicini di casa. Non sono gli esclusi, gli emarginati bensì quelli che vivono come loro e questo è un importante segno di integrazione».
L’effetto che ha la concentrazione di stranieri in città è però molto evidente e i numeri del nostro esperimento sociale lo confermano. Chi vive in città o nelle zone limitrofe ha una percezione più elevata del numero di stranieri residenti rispetto a chi vive in zone più rurali, questo forse anche perché il centro città è caratterizzato dalla tanto temuta presenza di cittadini non regolari, tema che anche i nostri politici locali rivangano da anni. Questo aspetto ce lo conferma Aurora, una delle nostre giovani intervistate: «quando esco in città ad impatto visivo mi sembra ci siano più stranieri che italiani. Penso, ad esempio a piazza Dante e a chi ci “lavora” o penso a determinati posti dove c’è un concentramento di stranieri, tipo il T8, –una discoteca a nord della città– che non è tipicamente frequentata da italiani». Ma è così importante a livello numerico questa fetta di popolazione?
«Questo si chiama “effetto visibilità” – spiega Sciortino – Non vediamo la gente che richiede mutui, che compera casa e che sono migliaia ma ci soffermiamo su quelli che stanno in Piazza Dante, che sono numericamente inferiori di molto ma paradossalmente danno più nell’occhio. È lo straordinario che ci attira».
Sull’aspetto dei media come divulgatori di informazioni mirate a incanalare la visione del pubblico in una direzione piuttosto che in un’altra, le teorie della sociologia sono contrastanti. «Le ricerche –afferma il professore–sono molto divise a riguardo. A molti piace l’idea dei media come fomentatori d’odio ma, in realtà, i telespettatori, perché parliamo di televisione come principale mass media, a mio avviso, sono più scafati di quanto non sembri. Altri sostengono il contrario, ovvero, che siano proprio i giornalisti a seguire l’interesse pubblico parlando di quello che piace e che viene maggiormente ascoltato. In fin dei conti, la diffusione di questo tipo di notizie è un dato piuttosto costante, sale nei momenti di campagna elettorale ma non ritengo abbia un impatto particolarmente significativo sulla percezione degli stranieri».